È in Europa che è iniziata la fine dei gialloverdi. Bilancio di una crisi

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Voleva darle, ha finito per buscarle. Voleva spezzare le reni all’Europa. Ne è uscito, almeno per il momento, con le ossa rotte. Ma evitiamo d’interpretare l’azione politica con categorie psicologistiche. La condotta di Matteo Salvini, per quanto apparentemente anomala, deve essere spiegata, in primo luogo, politicamente.

Passo indietro. Il contratto di governo è stata un pia illusione. Come tutte le volte in cui il sistema politico italiano, col suo provincialismo, invece di fare in conti con i problemi reali del Paese, cerca di darsi un tono, scimmiottando altri contesti. I contraenti del patto giallo-verde pensavano di uscire dall’impaccio baloccandosi nell’idea di un “contratto alla tedesca”. Purtroppo non basta pronunciare delle parole, non è una questione terminologica. Ma di serietà, credibilità, affidabilità della politica.

L’insistito richiamo al “contratto” si è rivelato flatus vocis, ovvero, più semplicemente, propaganda. Con un ulteriore equivoco. Pensare di risolvere la partita nel più disinibito e ostentato negozio del do ut des – questo a me, questo a te – ha portato al parossismo di un litigio la cui escalation, alimentandosi di dosi polemiche sempre più intense, non poteva che condurre a un punto di non ritorno.

Per un istante è sembrato potesse funzionare; all’inizio, nello schema “a te quota 100, a me il reddito di cittadinanza”; ma, come si è visto, è durato l’espace d’un matin. Se non c’è condivisione di un impianto valoriale e/o programmatico, non si regge all’urto dei problemi.

Ora, però, nel passaggio dal governo giallo-verde a quello rosso-giallo, attenzione a pensare sia tutto risolto. Che Salvini si sia fattualmente adoperato per escludersi dalla responsabilità di governo, studio di caso di un esponente politico che si faccia generosamente carico dei compiti dei suoi oppositori, è buona cosa. Ma l’accordo di governo non deve limitarsi a questo, né, tantomeno, compiacersene. Deve fondarsi su delle ragioni.

La prima è di rango costituzionale: sino a che si dà, in parlamento, una maggioranza, specie in un sistema sostanzialmente proporzionale come il Rosatellum, la quale non può che essere il frutto di un’intesa tra diversi, non ci sono i presupposti per far ricorso al voto, la cui valutazione, in ogni caso, spetta al capo dello Stato.

La seconda, ancora una volta, è politica: non bisogna confondere, si potrebbe dire, le pere con le mele, le elezioni politiche nazionali con quelle europee. Certo, i sondaggi davano la Lega alta, sopra il 35%; e anche se, nel frattempo, c’è stato un calo, è ancora alta; ma non bisogna dimenticare che la Lega, nell’attuale parlamento, porta il peso del voto del 4 marzo 2018, contabilizzato nella misura del 17.4%.

Ora, può capirlo anche un bambino: se il 17,4% si rivolge all’altro 82,6% dicendogli: fatti più in là, anzi guarda, vai a casa, perché io devo prendere i “pieni poteri”, come può andare a finire?

Per ricorrere a una banalità, forse, non ci sono più le leadership di una volta, per sempre. Ma a tempo. Come i cartoni di latte. Con ben impressa la data della scadenza. Nella circostanza, a fondamento di quel che è successo, non c’è solo ma anche, se non soprattutto, lo scandalo Russiagate. Qui non sono in questione gli aspetti giudiziari, o etici, che pure non mancano, di competenza della magistratura e della libera opinione di ognuno. Ma quelli politici. Per quanto strettamente intrecciati alla situazione del Paese e al rinnovo del mandato europeo a seguito delle elezioni del 26 maggio, dopo le quali, la prosecuzione del governo giallo-verde era legata a un riequilibrio.

Forse vale la pena di riprendere in mano il pallottoliere. Il M5s, nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018, ottiene il 32,7%, poi sceso al 17,7% nelle europee del 26 maggio 2019. La Lega, con movimento opposto e contrario, dal 17,4% passa al 34,33%. Dimezzamento per il M5s; raddoppio per la Lega; un travaso perfetto.

C’è stato il “rimpastino”. Lorenzo Fontana (Lega) al ministero agli Affari europei e Alessandra Locatelli (Lega), promotrice delle contravvenzioni a carico di chi aiuta i clochard e della rimozione dei ritratti del presidente Mattarella dagli uffici comunali, al ministero della Famiglia. Ma occorreva completare il quadro con un leghista in commissione europea, per tante ragioni che è superfluo menzionare. Qui si è inserito un passaggio che non è stato adeguatamente evidenziato. Ad un certo punto, Giancarlo Giorgetti (Lega) ha dato forfait, in modo piuttosto irrituale, riponendo la sua indisponibilità nelle mani del capo dello Stato. Quindi sono stati fatti altri nomi. Per lo più ministri in carica della Lega.

Però, nessuno è “passato”. Perché? Perché il M5s, nel frattempo, è stato determinante nell’elezione di Ursula von der Leyen. Creando i presupposti per un cambio di prospettiva. La Lega contro; ma isolata, anche nel campo sovranista. Specie tra i sovranisti dell’Europa dell’Est, segnati da una storia di rapporti drammatici con la Russia, come gli ungheresi e i polacchi, i quali hanno fatto l’accordo, ponendosi dentro la governance europea. Qui i presupposti della progressiva débâcle del disegno salviniano. Non nell’asse Merkel-Macron. Ma in quello Orbàn-Kaczyński. Si dimentica che il progetto europeo è stata anche una scialuppa per Paesi che volevano congedarsi dal troppo interessato abbraccio della Russia, dopo il mondo diviso in blocchi, a seguito della caduta del Muro di Berlino.

Sino all’altrimenti incomprensibile gesto autolesionistico: presentare una mozione di sfiducia contro il proprio presidente del consiglio, poi ritirata fuori tempo massimo, alzando i toni sino a chiedere elezioni anticipate per ottenere “i pieni poteri”, rievocando, oltretutto, pagine non proprio splendenti della storia nazionale.

Di fronte all’impossibilità di indicare un commissario europeo della Lega, che avrebbe consentito di completare l’“equilibrio” in Italia e di tenere il punto in Europa, Salvini ha avvertito l’impulso, che ha assecondato, di rovesciare il banco. Non un Blitzkrieg, uno Spritzkrieg. Quando lo ha fatto, non si messo nell’angolo, era già nell’angolo. Con effetto breakdown. O slavina, la palla di neve che si fa valanga. Vincitore elettorale delle europee, Salvini, si rivela, in tal modo, politicamente sconfitto.

Se ci facciamo caso, la formazione del nuovo governo Conte è intrecciata a quella della nuova commissione. Non è né un bene né un male, è un fatto, che dimostra che il sovranismo non ha nulla a che fare con la prassi politica entro la quale si dà il destino di comunità degli Stati che condividono il progetto europeo, con tutti i limiti del progetto e la straordinaria esigenza di un robusto tagliando a oltre un quarto di secolo dal Trattato di Maastricht, sottoscritto, il 7 febbraio 1992, per quanto riguarda l’Italia, dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga e da una compagine di governo che aveva come presidente del consiglio dei ministri Giulio Andreotti, come vice presidente Claudio Martelli, come ministro degli Esteri Gianni De Michelis. Nel segno dell’alleanza tra le due principali famiglie politiche europee, quella democristiana e quella socialista, vecchio conio.

Il fatto è che il governo giallo-verde non era nelle condizioni di designare un commissario europeo per l’Italia. Non poteva essere del M5s dopo l’affermazione europea della Lega. Non poteva essere della Lega per gli equilibri in Europa, avendo il Russiagate evidenziato les liaisons dangereuses tra la Lega e la Russia.

Conclusione: il sovranismo italiano non ha retto la sfida vera, quella che si era proposto con l’Europa.

Per indicare un commissario europeo occorreva un’altra maggioranza. Quella possibile nell’attuale Parlamento. Con una svolta necessaria, superando l’approccio infantile del pop corn e spingendo il centrosinistra a una fase più adulta e matura, dopo il trauma del 4 marzo 2018, riconoscendo, con realismo, la chance di una collaborazione, pur tra molti distinguo, con il movimento cinquestelle.

L’astuzia della ragione ha voluto che, in questo passaggio, fosse riconosciuto il ruolo di Articolo Uno con un ministero come quello della Salute affidato a Roberto Speranza, rilanciando la prospettiva di un centrosinistra plurale.

Ma la partita non è finita. Anzi inizia adesso. Occorrono politiche adeguate e coerenti di contrasto alle diseguaglianze. Evitando i due limiti speculari del centrosinistra degli ultimi anni: da un lato una specie di soggezione agli avversari politici, dall’altro uno stucchevole senso di superiorità, divenuto insopportabile anche agli occhi di quelli che vogliono bene al centrosinistra.

Salvini non è più al governo, ma continua a rappresentare una posizione sfidante. Le attese del voto, mancato a livello nazionale, possono ribaltarsi sui prossimi appuntamenti elettorali in Calabria, Umbria ed Emilia-Romagna, dando ad essi un rilievo politico nazionale e stimolando non solo l’elettorato di destra, ma anche quella parte di elettorato propensa a risolvere la crisi di governo nel voto anticipato.