Rete unica, ma a controllo pubblico e per il bene comune

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Nel 1922, quasi cent’anni fa, l’Italia era sorprendentemente all’avanguardia.

In Francia circolavano 300mila autovetture, nel Regno Unito il doppio, nel nostro Paese appena 41.000, eppure si decise di costruire il primo asse viario maggiore al mondo, l’autostrada dei laghi: niente carri, carrozze o calessi, soltanto automobili, che potevano sfrecciare non soltanto incontro a un discutibile futurismo bensì verso un indifferibile futuro.

Era presto, per l’autostrada, ma si decise di non attendere, si scelse di innovare, un po’ come se già nel 1995, con ben pochi utenti Internet che s’apprestavano ad adottare Windows 95, fortunato sistema operativo rilasciato nell’agosto di quell’anno, avessimo costruito una Rete unica pubblica in fibra ottica per connettere il Paese.

La situazione delle autostrade digitali italiane invece, non è mai stata rosea, complici decisivi stop prima ancora di partire, come per la riforma del sistema radiotelevisivo della legge 14 aprile 1975, n. 103, che impedì lo sviluppo della Rete via cavo, la quale oggi contribuisce a ridurre il digital divide ovunque in Europa.

Avvolgiamo il nastro di vent’anni e poi d’un altro quarto di secolo ancora e arriviamo al 28 agosto 2020: l’Italia, dopo lustri di ritardo accumulati, nello stesso anno in cui riprende in mano pubblica le autostrade, ha (l’annuncio di) un piano “Rete unica” che prevede l’ex-monopolista, oggi soggetto privato tutt’altro che privo di responsabilità per l’immobilismo sull’infrastruttura digitale, avere il 50,1% e dunque la maggioranza della nuova società che dovrà portarlo a termine. Il tutto incardinato in un guazzabuglio di governance creativa che dovrebbe garantire una guida non nelle mani dell’azionista di maggioranza TIM, bensì a favore del pubblico investitore e investimento.

Fu soltanto la creazione di Open Fiber nel 2015 a sbloccare gli investimenti su di una Rete neutrale, wholesale, in fibra pura e a prova di futuro, seguente il corretto indirizzo europeo della gigabit society, evidenziando tutta l’inazione di TIM – vittima, va detto, di una privatizzazione allegra quanto dannosa –, e che ora la palla torni in misura tanto prepotente a TIM desta più che una legittima preoccupazione.

Avevano fatto ben sperare bellicosi e pubblici (intesi anche come a favore di una player pubblico per la Rete) i proclami del Viceministro Buffagni e soprattutto del Ministro Patuanelli, tuttavia questi si sono sciolti come neve al sole in meno di 24 ore, e come Governo sponda Gualtieri abbiamo accettato le alte pretese di Gubitosi, ad di TIM, che giustamente ha fatto (fin troppo bene) il suo per tutelare interessi e profitti della propria azienda.

Son stati certamente tutelati anche i lavoratori dell’ex-monopolista, indotto compreso, il che di per sé è cosa buona e giusta, sennonché nel 1922 non si sarebbe realizzato un solo metro di autostrada se si fosse stabilito che l’interesse del sistema-Paese fosse tutelare i produttori di calessi, e i vari maneggi di cavalli disseminati per lo stivale. È d’altra parte positivo il ritorno, seppur troppo timido e benevolente, del pubblico sulla scena della strategia socioeconomica di un asset strategico per un servizio essenziale quale la Rete Internet; il passo successivo sarebbe riempirla, la Rete, di presidi democratici, contenuti integrati di servizi che accendano una vera gestione democratica della Rete, e non la lascino semplicemente come ‘fibra spenta’.

In ogni modo, restando all’adesso, mentre il fino a ieri bellicoso Presidente di Open Fiber Bassanini si sente garantito da quelli che definisce “presidi sufficienti” e gli operatori come WindTre, Fastweb e Sky concedono un’apertura di credito al piano, in attesa anche del passaggio per le forche caudine di antitrust italiano ed europeo il rischio immediato è di un ritardo prolungato in un piano di posa della fibra ottica che appena cominciava ad accelerare grazie anche al “Decreto Semplificazioni”. Speriamo che il rischio successivo sia di non ritrovarci con una carrozza, anzi un carrozzone, che non può neanche entrare, in autostrada, perché l’autostrada (digitale) non ci sarà neanche nel 2122.