2020: un anno di dubbi, domande, risultati

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Il coronavirus SARS-CoV-2 è stato identificato e caratterizzato tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Si tratta di un virus a RNA, che ha fatto il salto dal pipistrello all’uomo, con un dubbio passaggio per il pangolino. Non sappiamo ancora, infatti, se tra il pipistrello e l’uomo si sia inserito un ospite intermedio. Il virus muta ad un ritmo inferiore rispetto ad altri virus a RNA, ma diverse mutazioni sono state descritte. Tra queste, la variante D614G si è ampiamente diffusa a partire da marzo ed è oggi quella prevalente. A partire da settembre, una nuova variante è stata identificata in Inghilterra e si è da allora diffusa sul territorio britannico. Questa nuova variante presenta molte mutazioni anche a carico della proteina Spike ma, ad oggi, non sappiamo se sia più aggressiva o se riesca a eludere meglio la risposta immunitaria.
SARS-CoV-2 ha come via d’ingresso nelle nostre cellule il recettore ACE2, a cui il virus si lega mediante la proteina Spike, che riconosce anche l’ACE2 presente in alcuni animali, tra cui visoni, macachi, gatti e cani, che possono quindi essere infettati.
Sappiamo che l’infezione COVID-19 si manifesta con grande eterogeneità, con pazienti del tutto asintomatici o che mostrano sintomi da lievi a moderati e una piccola percentuale che va incontro a gravi problemi respiratori. I soggetti positivi sono contagiosi indipendentemente dalla gravità della malattia e anche prima della comparsa dei sintomi. Tuttavia, sappiamo anche che il contagio avviene a macchia di leopardo, soprattutto mediante eventi di super-diffusione.
Il virus entra nelle cellule del tratto respiratorio e inizia a replicarsi e a migrare verso i polmoni. La rapida replicazione del virus può indurre una forte risposta infiammatoria che, in alcuni casi, danneggia non solo i polmoni, ma si estende fino a colpire anche reni, vasi, cuore e cervello. Tra i fattori di rischio, il primo è l’età avanzata. Con l’invecchiamento, il sistema immunitario cambia: la sua capacità di generare risposte protettive diminuisce, mentre aumenta l’infiammazione silente, specie in presenza di altre patologie. La presenza di co-morbidità (obesità, diabete, ipertensione, problemi al cuore o ai reni) contribuisce ad aumentare il rischio di sviluppare la malattia in forma severa. L’infiammazione sembra essere alla base di molte condizioni che espongono a un maggiore rischio di morte per COVID-19. Il bilanciamento delle risposte messe in atto dal nostro organismo sembra essere quindi la chiave per spiegare l’enorme variabilità con cui COVID-19 si manifesta: se prevalgono le risposte protettive, che portano alla produzione di linfociti e anticorpi neutralizzanti, i pazienti superano l’infezione facilmente, ma se, per ragioni che comprendiamo solo in parte, queste risposte sono inefficaci, il virus si replica velocemente e scatena un’infiammazione pericolosa.
Oltre all’età, la genetica gioca senz’altro un ruolo importante. Una regione del cromosoma 3 – che pare abbiamo ereditato dai cugini di Neanderthal – è stata associata a un quadro più severo della malattia, così come sembra che in alcuni pazienti gravi vi sia un difetto nella via dell’interferone di tipo 1, una molecola con proprietà antivirali.
Cosa sappiamo invece dell’immunità? In buona parte dei pazienti guariti, si generano anticorpi neutralizzanti in grado di bloccare l’ingresso del virus nelle cellule, che però scompaiono velocemente, tra i tre e i cinque mesi dopo l’infezione. Tuttavia, sappiamo anche che il virus attiva molte cellule dell’immunità e questo ci fa sperare che, in molti pazienti, si generi una protezione di maggiore durata. Bisogna però ammettere che casi di reinfezione documentata sono stati segnalati.
Sul fronte delle cure, i farmaci antivirali – come l’idrossiclorochina o il remdesivir – hanno dato risultati scarsi. L’unico vero successo si è avuto con un farmaco vecchio e molto noto per la sua azione antinfiammatoria, il desametasone, che si è rivelato molto efficace nel trattamento dei pazienti più gravi. Si è molto discusso dell’uso del plasma iperimmune per trasferire anticorpi e protezione nei pazienti ricoverati ma, ad oggi, non ci sono prove che questa terapia funzioni davvero. Diversi laboratori hanno invece prodotto anticorpi neutralizzanti che potrebbero rappresentare un primo farmaco specifico contro il Sars-Cov-2. In USA, gli anticorpi monoclonali sono approvati per uso di emergenza per prevenire il ricovero dei pazienti a rischio.
Sin dalle prime settimane della pandemia, tutte le attenzioni si sono focalizzate sulla produzione di un vaccino. Ci sono oggi 19 vaccini in fase III, 6 per uso limitato e 3 approvati. I primi ad arrivare al traguardo sono stati i vaccini basati sull’RNA messaggero per la proteina Spike. L’efficacia di questi vaccini nei confronti della malattia è alta e ci sono dati incoraggianti anche sulla loro capacità di bloccare il contagio. Non sappiamo però quanto duri l’immunità. Inoltre, non abbiamo ancora vaccini per la fascia pediatrica e per le donne in gravidanza.
La grande lezione che abbiamo imparato quest’anno è, però, che siamo estremamente vulnerabili di fronte alle infezioni. Per molto tempo, grazie a vaccini e antibiotici, ci siamo preoccupati di altro e la ricerca in questo settore non è stata adeguatamente sostenuta. Eppure, sapevamo che una pandemia sarebbe arrivata. Così come sappiamo che altri virus arriveranno e che i batteri stanno acquisendo resistenza a tutti gli antibiotici che abbiamo a disposizione. Si stima che nel 2050 le infezioni da batteri antibiotico-resistenti causeranno 10 milioni di morti all’anno, ben oltre i quasi 1,7 milioni di morti causati dal SARS-CoV-2 nel 2020. E sappiamo che già oggi l’Italia è lo stato più colpito in Europa. Non possiamo ignorare anche questo allarme.