9 novembre 1989: “Da stasera la frontiera è aperta”, a Berlino cade il Muro tra Est e Ovest

0
67

Ieri ha definitivamente chiuso i battenti l’ultimo simbolo della Guerra Fredda, l’aeroporto di Tegel, amatissimo dai berlinesi per i quali è stato, per molto tempo “la porta d’accesso al mondo”, come ha ricordato il sindaco Michael Mueller. La settimana scorsa, con un ritardo di nove anni è stato aperto un hub sostitutivo dall’altra parte della capitale intitolato a Willy Brandt, protagonista negli anni settanta della stagione della Ostpolitik. L’aeroporto, costruito nel 1948 durante il blocco della città da parte dei sovietici, rappresentava il legame con l’occidente democratico quando Berlino Ovest era un’enclave democratica all’interno della Repubblica Democratica Tedesca comunista, e era divisa dal Muro di cui oggi si celebra il 31esimo anniversario della caduta. 9 novembre 1989, cade il Muro di Berlino L’iconografia scolpita nei ricordi è quella dei giovani che si arrampicano tirandosi su a vicenda, dei picconi che sollevano polvere dalla granitica e affollata sommità della barriera, dei martelli dei primissimi “Mauerspechte”, i “picchi del Muro”, e degli idranti a cui rispondono ombrelli irridenti alzati in segno di sfida a un regime ormai agonizzante: in tre giorni, due milioni di persone passano il confine sancendo la fine di un’epoca segnata dalla Guerra Fredda e dalla contrapposizione tra le due superpotenze egemoni sulla scena mondiale: Stati Uniti e Unione Sovietica. La verità, racconta la storia, è che il muro cadde quando nessuno se l’aspettava anche se in qualche modo era stato preannunciato dalle fughe estive di tedeschi orientali attraverso Ungheria e Cecoslovacchia e dalle dimissioni, il 18 ottobre, del leader della Ddr, Erich Honecker, che ancora a gennaio aveva preconizzato vanamente altri “cento anni di Muro”. Accadde che dopo diverse settimane di disordini pubblici, il Governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse. In una conferenza stampa il portavoce del governo della Ddr, Guenter Schabowski, incalzato dall’allora corrispondente dell’ANSA a Berlino est, Riccardo Ehrman, annunciò, per un malinteso, la modifica con effetto “immediato” delle “norme per i viaggi all’estero”. La diretta tv che inquadrava Ehrman seduto ai piedi del tavolone da cui parlava Schabowski spinse decine di migliaia di berlinesi dell’est verso i posti di frontiera fra le due parti della città. Le guardie, colte di sorpresa da un afflusso così massiccio, chiesero ordini su come comportarsi, ma comunque alzarono le sbarre bianche e rosse permettendo a tutti di passare senza controlli: una resistenza senza equipaggiamenti anti-sommossa, del resto, era tecnicamente impossibile o sanguinosamente inutile. All’inizio ci fu stupore e incredulità per la beffa ai Vopos, gli agenti della Polizia del popolo che per quasi 30 anni avevano sparato contro chiunque tentasse di scavalcare il Muro e che si erano resi responsabili più o meno direttamente della morte di almeno 140 fuggiaschi solo a Berlino. Poi, per tutta la notte, ci fu solo la grande festa di un popolo riunito. Il Muro come una macchina del tempo Per 28 anni questa barriera di cemento armato lunga 155 chilometri aveva diviso fisicamente la capitale tedesca in due parti: la Berlino Est, controllata dall’Unione Sovietica e la Berlino Ovest, zona di occupazione americana, britannica e francese. La costruzione era iniziata nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 per bloccare il flusso di cittadini che dall’est emigravano verso ovest, in cerca di condizioni di vita migliori. Inizialmente costituito da pali e filo spinato, negli anni successivi il muro era stato ampliato e reso sempre più impenetrabile. Due lunghe file di blocchi prefabbricati di cemento armato alti 3 metri correvano parallele lungo il confine, controllate da torrette e posti di blocco. Nel mezzo, una lingua di terra nota come “la striscia della morte”, presidiata da cecchini. Si stima che oltre duecento persone siano state uccise dalle guardie mentre provavano a fuggire verso Berlino Ovest. In cinquemila circa riuscirono a varcare il confine, utilizzando diversi stratagemmi tra cui bagagliai con il doppio fondo e tunnel scavati al di sotto del muro. “Il muro era come una macchina del tempo. Si passava Checkpoint Charlie e si piombava nel passato, negli anni Cinquanta. Meno luci, niente insegne, anche l’aria aveva un altro odore, impestata dalle Trabant, le vetturette in plastica simbolo dell’industria nella Ddr”, ha scritto Roberto Giardina, giornalista e scrittore, testimone di quegli anni.