A casa non si gioca più

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Una lavagnetta in cucina con il menu del giorno, un’organizzazione quotidiana flessibile, tanta pazienza e spirito di iniziativa per fronteggiare gli imprevisti all’ordine del giorno. Florinda e il suo compagno Mariano ce la mettono tutta. Hanno due bambini: Federico, quattro anni, e Cecilia, sei mesi. Da quando è iniziata l’emergenza Coronavirus lavorano entrambi da casa. Lui è autore, lei lavora in radio, appena finito il congedo di maternità è rientrata direttamente in modalità smart working. Come tante famiglie, stanno cercando di far fronte alla situazione, tenendo insieme il lavoro e il tempo per seguire i figli. E come molti genitori, si domandano se ciò avrà delle ricadute emotive sui loro bambini.

La chiusura prolungata di scuole e asili nido e l’imperativo categorico di restare a casa hanno privato bruscamente i più piccoli degli amici, dei nonni, delle maestre e dei maestri (tutte quelle figure che non sono mamma e papà). All’improvviso, sono venuti a mancare tutti i luoghi dove il bambino crea le sue prime reti sociali, impara a stare in mezzo agli altri, a conoscere il mondo. Stare insieme a mamma e papà per il tempo più lungo possibile è il sogno di tutti i bambini, ma a che prezzo in questo momento? Tra le preoccupazioni principali dei genitori non c’è solo la quantità, ma anche la qualità del tempo trascorso in famiglia. Lo smart working nel periodo della pandemia, senza regole e disciplina, ci ha mostrato che stare nello stesso posto non vuol dire automaticamente stare insieme. Migliaia di mamme e di papà cercano di incastrarsi le agende, ma spesso falliscono nel tentativo. Si ritrovano a tirare a sorte per tenere i bambini, mentre cercano faticosamente di non perdere il filo del discorso nell’ennesima call. Arrivano, puntuali, le esortazioni a “mutare” il proprio audio, cui fa da sottofondo il pianto disperato di un neonato che non riesce a prendere sonno, o l’insistente richiesta di fare il verso del cane, o i trilli di un orsetto parlante. Mamme che allattano togliendo il video in call; pappe preparate mentre si cerca di concludere una telefonata con gli auricolari; dialoghi surreali (“i piselli non li voglio”, “devi mangiare tutto, altrimenti mi arrabbio. No, scusi, non dicevo a lei, parlavo con mia figlia”).

Ci si ritrova a mettere i bambini davanti ai cartoni più del tempo che era stato stabilito, nel decalogo del bravo genitore. Si tenta di ultimare la scrittura di un documento seduti sul tappeto di gomma, mentre l’altra mano rilancia la palla, per poi rendersi conto, dopo l’invio, che i refusi superano il limite concesso dall’errore di distrazione. I genitori che lavorano da casa, in questa situazione, vivono in uno stato perenne di ansia, tra la rabbia che esplode improvvisa e il costante senso di colpa di trascurare i propri bambini. Ci si interroga sulla percezione che i figli hanno di questa situazione, in cui mamma e papà sono sempre a casa, ma giocano molto meno di prima. Con i bambini che sanno già parlare, quelli in età scolare, ci si ritrova a fare conversazioni in cui le paure e le preoccupazioni emergono in maniera evidente, così come la mancanza della scuola o dell’asilo. Un po’ più complicato è capire cosa stia succedendo nelle vite dei più piccoli, i bambini di pochi mesi, che si stavano preparando a scoprire il mondo che li circonda e che sembra meraviglioso, anche nella più spoglia delle strade di città. Difficile capire, per un genitore, che impatto possa aver avuto su questo momento cruciale del loro sviluppo, il fatto di non potere uscire mai, di fare sempre gli stessi giochi, di non vedere niente di nuovo per settimane. La risposta a queste preoccupazioni si nasconde dietro l’eccitazione incontenibile con cui tanti bambini, di alcuni mesi o pochi anni, si sono affacciati all’unica finestra sul mondo che hanno avuto durante la fase uno, quella di casa. Le giornate si susseguono frammentate, mentre il tempo che i genitori passano con i propri figli si mescola pericolosamente a quello del lavoro. I bambini richiedono un’attenzione esclusiva: bisogna ascoltarli, parlarci, guardarli negli occhi. Non funziona ingannarli con buffe vocine urlate dal tavolo al quale si è seduti da ore, senza mai riuscire a dire basta. Chi è genitore lo ha capito.

Lo smart working non è giusto o sbagliato, non è buono o cattivo. E’ un’opportunità che va offerta con gli strumenti giusti. Potrebbe funzionare, in tempi di normalità, come opzione di lavoro da casa per un paio di giorni a settimana, magari alternati tra mamma e papà. Potrebbe avere delle ricadute positive sulla congestione di trasporti e traffico, facilitando così gli spostamenti che prevedono, prima del lavoro, la tappa scuola o asilo. Ma il lavoro agile, in questi due mesi, è stata la risposta improvvisata alla mancanza di soluzioni adeguate. Il congedo parentale pagato al 50% per moltissime famiglie non è un’alternativa praticabile, perché non se lo possono permettere. Per la stessa ragione, il bonus baby sitting di 600 euro (che potrebbe essere raddoppiato con il Decreto Rilancio) non è per tutti un contributo sufficiente. Se lo si rendesse tale, si potrebbe far affidamento su una persona che badi ai bambini anche mentre si lavora da casa, favorendo l’organizzazione dei genitori. Ad oggi, lavoro agile vuol dire scrivere mentre si pranza sfruttando “i tempi morti”, tenere il pc perennemente acceso come un monito, lavorare di notte per guadagnare tempo. Prima della pandemia, genitori e figli passavano meno tempo insieme, ma lavorando da casa si sono privati di quei momenti che prima erano unici ed esclusivi.