A tre mesi fu abbandonato dalla madre

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A 5 anni suo padre, che non lo aveva mai riconosciuto, venne ucciso in una sparatoria, crivellato con 23 colpi di pistola.
Il suo viso da bambino già allora era segnato da una lunga e profonda cicatrice. Ce l’aveva da quando era un neonato: gli era piovuta addosso l’acqua bollente di un bollitore. I suoi zii lo avevano portato di corsa all’ospedale, avvolgendolo in una coperta di nylon che però si era sciolta sulla sua pelle ustionata, peggiorando le cose.
Il suo nome era Carlos Martinez, ma quando fu più grande decise di cambiarlo. Prese il cognome dei suoi zii materni, che lo avevano adottato: la signora Adriana e il signor Segundo Tevez. Con loro era andato a vivere in uno dei quartieri più poveri e violenti di Buenos Aires, soprannominato “Fuerte Apache”.

A dargli finalmente un po’ di pace, in quella vita così fin da subito in salita, fu il calcio. Quando aveva il pallone tra i piedi il dolore era fonte di resistenza, la rabbia si tramutava in voglia di vincere e i problemi con il mondo là fuori erano benzina per la garra.
Fu così che Carlitos Tevez, detto l’Apache, divenne un campione conosciuto in tutto il mondo. Di una tipologia rara: talento e corsa, tecnica e tenacia, gol e ammonizioni.
Il fuoriclasse con la faccia sporca oggi ha 35 anni e diversi milioni in banca. Ma non ha mai dimenticato le sue origini difficili. Nella storia sono in pochi quelli che hanno saputo incarnare meglio di lui l’anima povera e ribelle della Bombonera.