Alessandro Vandelli, Amministratore Delegato di Bper Banca

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

A quattordici anni la mia passione era la musica e in particolare la chitarra, strumento a cui mi ero avvicinato anche per il fascino che esercitava su di me la presenza, a pochi passi da casa, del laboratorio Masetti, nota liuteria modenese frequentata da musicisti italiani e internazionali che non produceva solo chitarre classiche, ma anche modelli pensati per il jazz e il blues. Con la scusa di farmi accordare una chitarra da quattro soldi, rimanevo per ore a guardare il lavoro del liutaio, dalla sagomatura alla verniciatura: fase, quest’ultima, che richiedeva una grande maestria e l’uso di un intruglio a base di alcol e resine, il cui profumo non posso scordare. Ma la mia prima vera chitarra è stata una Wandrè Scarabeo elettrica, prodotta da quello che viene unanimemente considerato il più originale e visionario liutaio italiano. Anche perché, diciamolo, io volevo diventare un grande chitarrista rock.
Visto com’è andata, sembra solo un aneddoto strampalato e magari un po’ snob. Invece è la pura verità, anzi un sogno interrotto. Tanto che quando smisi con la chitarra e iniziai a studiare Economia all’università, preparandomi a quello che sarebbe diventato il lavoro vero di una vita, gli amici non mancarono di citare Venditti: “Sei entrato in banca pure tu”. Vero, ma nei cromosomi di famiglia qualcosa alla fine è rimasto e mi fa piacere che uno dei miei figli porti avanti questa passione, anche se lo strumento prescelto è differente: la batteria. Sono nato a Modena. Mio padre Nestore era originario di Riccò, un piccolo borgo situato sulle prime colline dell’Appennino a sud della città. Vandelli è un tipico cognome modenese: viene subito da pensare a Maurizio Vandelli e alle canzoni dell’Equipe 84. Non siamo parenti, ma qualcosa ci accomuna: appunto la passione per la musica, di certo non rara da queste parti. Mia madre era una Benzi, anche lei con un cognome da modenese doc. Papà insegnava e lo faceva con passione: è stato il primo docente laico di religione a Modena. Mamma Irene, invece, ha gestito un’attività commerciale per un breve periodo, decidendo poi di dedicarsi interamente alla famiglia. Sono il secondo di due figli, cresciuti in pieno centro storico, a poche centinaia di metri dalla Ghirlandina, la bianca torre campanaria del Duomo che svetta in mezzo alla pianura da molti secoli. Il nostro punto di ritrovo era un cortile a fianco della piccola chiesa di San Barnaba e il calcio è stato, come per molti altri, la prima passione: ho anche vestito la maglia di qualche squadra giovanile. Ma poi, come dicevo, ha fatto irruzione la musica. Fondammo una boy-band, così si direbbe oggi, il cui nome era tutto un programma: “Struttura assente”, tanto per far capire che avevamo molta voglia e pochi mezzi. Il repertorio? Cover di gruppi rock come Santana, Deep Purple e Led Zeppelin, ma anche brani composti da noi. Suonavamo nelle sagre di paese, poi iniziammo a fare concerti veri. Come chitarrista ero quasi autodidatta, all’epoca non era facile trovare insegnanti per il genere musicale che preferivo. A 18 anni riuscii a superare un’audizione al conservatorio, ma non mi fecero entrare: davano la precedenza ai ragazzini delle elementari. Avrei potuto fare l’uditore per un anno e poi passare ai corsi normali, ma decisi di rinunciare. Nel frattempo frequentavo il Liceo Scientifico Wiligelmo, anche se mia madre – con il suo culto concreto del posto in banca – avrebbe preferito per me gli studi più tradizionali di Ragioneria. E proprio al liceo nacque un’altra passione: quella per la rappresentanza, diciamo così, politica del mondo studentesco. Fui eletto in Consiglio d’Istituto in una lista di orientamento cattolico che si chiamava “Alternativa democratica” e faceva la fronda alla “Lista unitaria”, allora prevalente in molte scuole di Modena. Anno dopo anno, però, combinare lo studio, la musica e la passione politica stava diventando troppo complicato, così al momento di iniziare l’università presi una decisione dolorosa: lasciare la band. La scelta dell’Ateneo, invece, fu netta e senza indecisioni: mi iscrissi a Economia e Commercio a Modena. Era una facoltà nata da pochi anni, nel ’68, e rapidamente cresciuta grazie al lavoro appassionato di un gruppo di giovani docenti. Ricordo, in particolare, il ruolo svolto da Marco Onado: fu lui, arrivato a Modena nel ’72, il primo professore ordinario di una materia denominata Tecnica bancaria e professionale, che più tardi sarebbe diventata Economia delle aziende di credito. Allora la facoltà aveva due filoni, uno aziendale e l’altro economico, che seguivano un biennio a indirizzo comune. Fin dall’inizio il mondo della finanza aziendale è stato quello che mi ha appassionato di più, delineando il futuro percorso professionale in banca. Mi attirava la possibilità di conoscere e valutare un’azienda a partire dal suo bilancio, con l’obiettivo di comprenderne a fondo le caratteristiche economiche e finanziarie e di ipotizzare la probabile evoluzione. Compito reso meno difficile, proprio in quegli anni, dalle riforme del diritto civile e commerciale, che avevano rafforzato la parte obbligatoria di comunicazione finanziaria delle aziende. Non ero uscito dallo Scientifico con risultati molto brillanti, complici i troppi interessi. Ma mi buttai a capofitto nel primo esame di Matematica generale: fu un bel 30 e lode. E appena fuori dall’aula, grazie a un incontro fortuito, mi presi una piccola rivincita raccontando l’esito proprio alla professoressa di Matematica, con cui avevo avuto un rapporto non proprio semplicissimo al liceo. Terminati gli esami scelsi una tesi di laurea sperimentale sui processi di concentrazione nell’industria ceramica: un bel banco di prova, che mi permise di entrare in contatto con molti imprenditori del settore, con la loro associazione di categoria Assopiastrelle e con le banche che seguivano le imprese sul territorio: Comit, Popolare di Modena, Banco San Geminiano e San Prospero, Cassa di Risparmio di Modena. Cercavo di capire, in definitiva, come il mondo finanziario e creditizio analizzava e studiava le imprese del settore, ma non solo. Mi sono laureato con 110 nel luglio 1984 e sono entrato in banca nel novembre dello stesso anno. Nel frattempo avevo anche prestato il servizio militare nei Vigili del fuoco, prima frequentando il corso a Roma, alle Capannelle, poi con l’assegnazione da ausiliario alla caserma di Modena, come avveniva usualmente. Lavoravo in ufficio ma le chiamate incombevano: incendi in città e provincia, uscite con l’ambulanza di soccorso sui luoghi degli incidenti stradali, in estate una raffica di fienili in fiamme nelle campagne. Un’esperienza a volte dura, ma formativa, in un ambiente in cui contavano i valori veri. Ma i primi valori importanti sono stati quelli che ho respirato in una famiglia molto unita e con una ispirazione semplice ma profonda. Mio padre era impegnato nell’Azione Cattolica, girava la provincia di Modena in lungo e in largo tenendo conferenze. Io stesso, seguendo le orme di mio fratello maggiore Ruggero, sono stato iscritto all’Azione Cattolica, poi ho trasferito questa militanza nell’impegno all’interno degli organismi collegiali della scuola. Una formazione che ha contato molto, improntando il profilo etico del successivo approccio al lavoro. Proprio in quegli ambienti ho avuto l’occasione di conoscere Gabriella, che nell’86 sarebbe diventata mia moglie. Quando decidemmo di sposarci io lavoravo già in banca da un paio d’anni, mentre lei era insegnante elementare: è la professione – anzi direi la missione – che continua a svolgere ancora oggi con grande impegno. Ricordo che grazie ai buoni risultati della laurea e alle relazioni instaurate durante il periodo degli studi le occasioni di lavoro non mancavano. Decisi di accettare la chiamata di un’azienda ceramica, il gruppo Maiorca di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia: mi proposero di affiancare il Direttore amministrativo, che era rientrato da poco in azienda dopo un prolungato periodo di malattia. Nel frattempo avevo partecipato a una selezione indetta da quella che era appena diventata la Banca Popolare dell’Emilia, dopo la fusione tra Popolare di Modena e Banca Cooperativa di Bologna. Appunto nel novembre 1984, dopo venti giorni di lavoro in ceramica, arrivò la nuova proposta di assunzione: fu un momento sofferto, anche se ero molto interessato alla prospettiva di andare a lavorare in banca. Ma mi sembrava di tradire chi mi aveva appena dato fiducia, e inoltre pensavo che sarebbe stato un salto nel buio. Alla fine saltai, e venni assegnato all’Ufficio Estero della Popolare, sezione bonifici in valuta. Dopo tre mesi arrivò la prima svolta: stavano cercando una persona da affiancare al responsabile dell’analisi di bilancio e fui scelto io. Nel periodo di stesura della tesi avevo conosciuto un funzionario della banca che evidentemente si era poi ricordato di me, ritenendomi adeguato al settore. Dunque arrivai come “secondo” in un ufficio piccolo ma di qualità: ebbi la fortuna di incontrare un collega in gamba, che aveva messo a punto un processo di analisi accurato utilizzando un programma di elaborazione già evoluto, chiamato “Apice”, fatto girare su un Olivetti M24: un pc con ottime prestazioni per quell’epoca, ma un ferro vecchio se lo confrontiamo alle macchine che abbiamo a disposizione oggi. Il lavoro consisteva nel valutare il merito creditizio di ogni azienda sulla base dell’analisi per indici e flussi dei bilanci di un triennio. La nostra relazione veniva poi presa in esame dalla Direzione crediti per prendere le decisioni sugli affidamenti. Da neo assunto, insomma, avevo la possibilità di entrare in contatto con i vertici di un settore strategico della banca, partecipando alle loro riunioni e condividendo le riflessioni che ne scaturivano. In quel periodo avviai anche un’attività di docenza: un’esperienza nuova ma ricca di soddisfazioni. Ogni settimana ospitavamo colleghi che venivano dalle filiali e si immergevano con noi in un corso full time per imparare a fare le analisi di bilancio. Al termine del corso il giudizio dei partecipanti, in genere esausti ma soddisfatti, era più o meno lo stesso: “Gran bella occasione per imparare qualcosa di nuovo, ma ci avete davvero fatto… morire”.
Nel ’92 il responsabile dell’ufficio – che nel frattempo si era ampliato – scelse di provare l’esperienza del lavoro in rete e io presi il suo posto. Ricordo che all’analisi di bilancio affiancavamo approfondite indagini di settore, presentando i risultati in incontri pubblici: un’attività partita dalla ceramica e poi estesa al tessile-abbigliamento. Si entrava in contatto con i singoli imprenditori e con le associazioni di rappresentanza, non solo in ambito provinciale ma anche su scala regionale e nazionale. Furono otto anni intensi e interessanti. Un bel giorno, però, il Vice Direttore Generale Paolo Lelli mi chiamò a rapporto e disse: “Vandelli, lei finora ha lavorato di fioretto, ma è giunto il momento che prenda un coltello arrugginito”. Così a fine ’92 mi mandarono in rete: prima destinazione l’Agenzia 2 di Modena, dove in un anno e mezzo ruotai in quasi tutti i ruoli, anche perché assillavo il Direttore della filiale chiedendo spesso di cambiare incarico. Dall’estero ai titoli, dai servizi vari alla Segreteria fidi: fu un’esperienza a 360 gradi molto utile per le destinazioni successive. Da Modena, infatti, venni inviato in quella che era allora la periferia del Gruppo, cioè a fare il Vice Direttore della sede di Piacenza. Lavorare nella mia città era stato relativamente facile, ma ai confini dell’Emilia, dove non ti conosceva nessuno, dovevi trovare le modalità giuste per coltivare la relazione con la clientela. Dunque feci il pendolare in treno, su e giù dagli interregionali per un altro anno e mezzo, imparando molte cose. Questo pendolarismo spinto, però, aveva un’altra motivazione importante: volevo essere a casa di sera, per stare vicino alla famiglia che intanto si era allargata: dopo il primo figlio Riccardo, nato nel 1987, Nicolò è arrivato nel ’91 e infine è nata Marta nel ’99. Conciliare il lavoro con le esigenze familiari non è stato semplice, specie considerando gli impegni crescenti, ma ho sempre cercato di farlo. La tappa successiva fu di nuovo in provincia di Modena, con l’assegnazione a Vice Direttore della filiale di Castelfranco Emilia, una delle più importanti. Qui, infatti, aveva avuto sede una banca, poi incorporata dalla Popolare di Modena, e il senso di appartenenza locale era molto forte.
Ancora un anno e mezzo, poi mi fecero capire che presto sarei andato a fare il Direttore di sede o di filiale, ma in realtà non ho mai saputo quale. Nel ’96, invece, ci fu un radicale cambio di programma: bisognava avviare il Nucleo di finanza aziendale della banca. Venni scelto insieme con un collega che aveva fatto esperienza in rete nel rapporto con le imprese, mentre io probabilmente ero stato apprezzato per gli anni trascorsi ad analizzare i bilanci. “Adesso cosa facciamo?” ci dicemmo. Bella la definizione di finanza aziendale, ma andava riempita di servizi evoluti. Dunque non restava che arrangiarsi: prima una serie di corsi alla Bocconi sulla valutazione delle aziende e su vari ambiti connessi al mondo del corporate finance, quindi le trasferte a Milano e le settimane trascorse all’estero a fare apprendistato negli uffici e nei team dei fondi di private equity. Una delle prime situazioni concrete da affrontare fu la ristrutturazione di un gruppo del settore vinicolo. Ci lavorammo un paio di mesi e alla fine mi decisi a parlarne con il Vice Direttore Generale: “Non c’è una soluzione possibile per risolvere la tensione finanziaria di questa impresa: le suggerisco di passarla a sofferenza”. “Mi sta dicendo che avete studiato la cosa due mesi e ora non se ne fa nulla?” chiese Lelli. “Forse è meglio aver lavorato per evitare un’operazione sbagliata e dannosa – dissi – che sentirsi obbligati ad andare avanti”. Avevo una gran paura, ma mi sembrava la risposta corretta. Lui non replicò sul momento e mi chiamò due giorni dopo: “Si ricorda quello che ha detto? Bene, continui così”. In quegli anni cominciammo a strutturare le prime operazioni finanziarie in collaborazione con i fondi di private equity: noi ci occupavamo della parte di debito nei piani di acquisizione. Eravamo tra i primi in Italia – escludendo i grandi operatori come Mediobanca o Imi – a inaugurare questo tipo di attività ancora inedita per le banche commerciali. C’era la possibilità di toccare con mano la ricchezza spesso nascosta dei territori e di conoscere belle storie imprenditoriali. Ne ricordo una in particolare, che ha avuto un seguito recente: dopo un’istruttoria accurata decidemmo di sostenere, con un finanziamento amortizing affiancato da specifiche garanzie, un’azienda all’epoca in difficoltà che operava nel settore dei materiali per l’edilizia. Ebbene, cinque anni fa il titolare mi ha scritto una lettera per comunicare che il giorno prima aveva pagato l’ultima rata del mutuo. “Lei – ha aggiunto – ci ha dato fiducia in un momento complicato, perché ha capito che avevamo delle potenzialità. Oggi le devo dare atto di quel sostegno, con l’orgoglio da parte mia di essere riuscito a corrispondere alla sua fiducia”. Non posso dimenticare, ripensando a quel periodo, il ruolo svolto dal capo dei Crediti Daniele Bianchini, un collega da poco scomparso di cui ho avuto profonda stima: era diventata una prassi consultarsi con lui ogni volta che si costruivano operazioni di finanza straordinaria, in modo da poter contare sul benestare preventivo della Direzione Crediti prima del confronto finale con i clienti. Fu una stagione lavorativa stimolante e in alcuni casi esaltante, in cui portammo a buon fine molti interventi complessi. Uno per tutti: la quotazione in Borsa nel 1996 del Gruppo Ceramiche Ricchetti, realizzata dopo aver messo a punto, in collaborazione con un importante studio modenese di commercialisti, un meccanismo molto particolare di fusione inversa. E siccome ormai mi portavo dietro l’identikit della persona cui affidare attività nuove – analisi di bilancio, finanza aziendale – cominciai a essere coinvolto in operazioni evolute che riguardavano non più solo la clientela e le imprese, ma la banca stessa. Seguii una delle prime cartolarizzazioni di sofferenze attuata in base alla legge 52 ed ebbi occasione di lavorare qualche tempo a Londra, entrando in contatto per la prima volta con un mondo finanziario nuovo, che suscitò subito il mio interesse. Da allora la passione per Londra, con il suo dinamismo e le sue continue novità, non mi ha mai lasciato: è una metropoli immensa ma al tempo stesso un agglomerato di villaggi diversi, che oltre alle attività finanziarie offrono una vita culturale e artistica molto intensa e continue occasioni di incontro. Tanto che alla fine ho deciso di acquistare in città un piccolo punto di appoggio, poi diventato un po’ più grande, dove vado appena posso: credo sia importante anche per i miei figli, è la nostra apertura al mondo. Ma torniamo in banca. Ricordo che in quegli anni cominciai a collaborare strettamente con Ettore Caselli, Vice Direttore Generale dal ’92, che sarebbe diventato prima Direttore Generale e poi Presidente di Bper. Caselli sapeva dare piena fiducia se ti riteneva prudente, corretto e competente. Ed era molto franco nei suggerimenti, anche di carattere personale, probabilmente perché vedeva in me un collega in grado di ricoprire ruoli futuri più importanti. Un giorno mi prese da parte e disse: “Vandelli, lei non ha bisogno di molti consigli in ambito professionale, anche perché sembra essere sempre un passo avanti agli altri. Però deve concentrarsi su due obiettivi”. “Quali?”, domandai incuriosito e un po’ intimorito. “Prima di tutto imparare bene l’inglese”, rispose lui. “E poi perdere un po’ di chili: l’immagine conta”. Ebbene, devo dire che ho seguito subito il consiglio linguistico, mentre per il dimagrimento ho impiegato qualche anno in più, costantemente incalzato da Caselli: lui, sul punto, non ha mai mollato la presa. Sempre in quel periodo sviluppai una relazione professionale altrettanto importante con Guido Leoni, dal ’96 Direttore Generale e più tardi Amministratore Delegato dell’Istituto. Mi coinvolgeva ogni volta che c’era qualche progetto particolare da realizzare, in ambito bancario ma non solo. Tra le sue prime richieste, quella di entrare nel Consiglio di Amministrazione di Arca Merchant a Milano: ne fui sorpreso, ma ricordo l’esperienza come una tappa fondamentale per comprendere ancora meglio i meccanismi del private equity a contatto con i suoi protagonisti. E poi, per me cresciuto anche professionalmente nell’Emilia ricca e laboriosa, c’era il fascino indiscusso di frequentare i “santuari” della finanza. Ho ben vive nella memoria certe domeniche trascorse a Milano, alle prese con dossier spesso spinosi negli uffici di Mediobanca in via Filodrammatici. Là mi sembrava di respirare la storia economica del Paese: nelle sale spiccano i ritratti di Presidenti e Amministratori Delegati che hanno caratterizzato le vicende finanziarie dal dopoguerra in poi. Nel corso degli anni sono poi entrato in contatto con le più importanti realtà internazionali dell’investment banking di matrice americana e inglese, soprattutto, ma anche francese e tedesca. Insomma, un palcoscenico faticoso ma unico e indispensabile per apprendere, conoscere, scambiarsi informazioni. In molti contesti il fatto di venire dalla provincia, e da Modena in particolare, si è rivelato tutto sommato un vantaggio. Nei salotti finanziari chi ti incontrava per la prima volta tendeva un po’ a sottovalutarti e questo apriva imprevisti spazi di manovra: contavi sul fattore sorpresa per interpretare meglio l’approccio degli interlocutori. Inoltre l’esperienza fatta nel mondo della finanza aziendale mi aveva già messo in rapporto molto presto con operatori importanti di vari settori: rappresentanti di banche di investimento, advisor e analisti. Ma questi discorsi valgono soprattutto per il passato: oggi la provenienza territoriale non è più un elemento distintivo. La collaborazione con Leoni si intensificò con una serie crescente di incarichi fino a quando venni messo a capo del Servizio partecipazioni e progetti speciali, costituito nel 2005: questo segnò il passaggio dall’attività di corporate finance a un lavoro tutto incentrato sulle scelte strategiche della banca. Così organizzai le nuove strutture di Gruppo, che ancora non esistevano anche se la Popolare era ormai cresciuta molto oltre i confini regionali, e fui incaricato di seguire una serie di operazioni straordinarie, spesso molto complicate.
Da quel momento in poi la mia attività in ambito strategico si intensificò fino all’assunzione, nel 2007, della carica di Direttore centrale con la responsabilità della Direzione strategie e gestione di Gruppo, mentre nel 2008 venni nominato Vice Direttore Generale. Era una fase di cambiamenti importanti all’interno della banca, tra cui il passaggio di consegne tra Guido Leoni e Fabrizio Viola nel ruolo di Amministratore Delegato. Avevo conosciuto Viola nel periodo in cui ero stato incaricato di seguire le trattative per una potenzia- le aggregazione tra Bper e Popolare di Milano, sfumata proprio all’ultimo, nell’autunno 2007, per decisione del CdA della banca lombarda. E fu proprio Viola, una volta insediato a Modena nel 2008, a mandarmi a Sassari co- me Direttore Generale del Banco di Sardegna, l’Istituto controllato più importante del Gruppo. Un’esperienza iniziata nel 2010 e proseguita fino al luglio 2012, che definirei molto significativa e difficile. La Sardegna è una terra straordinaria, in cui ho toccato con mano l’impegno, la fedeltà e la correttezza di molti colleghi, ma ho anche dovuto affrontare in alcuni casi pregiudizi radicati e non facili da scalfire, nonostante la mia autentica volontà di portare avanti un progetto di valorizzazione del Banco, innanzitutto per la Sardegna e per i sardi. Dalla Sardegna tornai in anticipo sui tempi previsti, perché a inizio gennaio 2012 Viola decise di lasciare Bper per andare al Monte dei Paschi di Siena. A Modena fu nominato Amministratore Delegato Luigi Odorici e pochi mesi dopo io venni richiamato dall’isola per assumere il ruolo di Vice Direttore Generale e di Chief Financial Officer. Lo stesso Odorici chiese di avermi nello staff, con l’incarico di seguire le attività specificamente finanziarie della banca e del Gruppo, oltre alle relazioni con analisti e investitori: fu un segnale di fiducia per me molto importante. Da lì a meno di due anni, nell’aprile 2014, un’ulteriore svolta: Odorici rimase in Cda e io assunsi la carica di Amministratore Delegato. La proposta della nuova nomina era arrivata dal Presidente Caselli, a cui risposi così: “Sono onorato e assolutamente disponibile, ma ho maturato una convinzione: bisogna mandare in porto a breve un rafforzamento patrimoniale di Bper. Se ritieni di sostenermi, devo dirti fin d’ora che avanzerò la proposta dell’aumento di capitale nella prima riunione utile del Consiglio”. Caselli mi diede fiducia e avviammo subito l’operazione, che ebbe grande successo. Nel frattempo prese ulteriore impulso il progetto per ottenere dalla Banca Centrale Europea la validazione dei modelli interni per la gestione del rischio di credito: il via libera è arrivato nel giugno 2016, con un forte impatto positivo sulla solidità patrimoniale della banca. A proposito di uomini, devo dire che nell’ideazione e costruzione del Gruppo Bper hanno svolto un ruolo fondamentale prima Fausto Battini, con il quale non ho avuto un rapporto stretto, anche perché venne a mancare nel dicembre 2002 poco dopo la nomina a Presidente, e appunto Guido Leoni, a cui mi legano molti ricordi. Mi chiamava di frequente e i nostri colloqui avevano un copione fisso: sedevo nel suo ufficio austero, aspettavo pazientemente che finisse di leggere voluminosi dossier e poi iniziava una sorta di esame. Lui cercava di capire cosa pensavo, io ce la mettevo tutta per chiarire il mio punto di vista senza urtare la sua suscettibilità, evitando l’accondiscendenza ma anche la contrapposizione. Era un esercizio molto utile, in definitiva, per sviluppare la capacità di analisi delle diverse opzioni che si affacciano a ogni operazione sui tavoli di trattativa. Leoni, in particolare, aveva concepito e realizzato con grande coerenza l’idea del Gruppo federale, in cui si affiancavano alla capogruppo Bper varie banche in diversi territori, con la presenza di Soci locali e ampi margini di autonomia gestionale. Da un certo momento in poi, però, le condizioni di mercato e le regole della Vigilanza hanno imposto di rivedere questo modello. E per chi lo aveva ideato è stato difficile accettare l’evoluzione ormai inevitabile da Gruppo federale a Gruppo integrato, con meno legal entity all’interno e un ruolo più significativo per la capogruppo. La costituzione del Gruppo Bper, comunque, è stata fondamentale. Fra i tanti colleghi che hanno reso un servizio straordinario alla banca in questo processo delicato, assumendosi l’impegno di restare per molti anni lontano da Modena, vorrei ricordare il ruolo importante svolto da Mimmo Guidotti, che è poi stato Direttore Ge- nerale di Bper dal 2008 al 2011, in un contesto operativo complesso come il Mezzogiorno del Paese e in particolare in Calabria. Io stesso ero molto affascinato dal modello federale: mi sembrava un’idea vincente, che combinava la dimensione importante con il radicamento forte sul territorio. Ma a un certo punto ho dovuto prendere atto che si doveva voltare pagina: lo richiedevano, appunto, l’evoluzione delle modalità di vigilanza e la necessità di avere un potere di indirizzo più forte sulle varie componenti del Gruppo. Così ho cercato di dare il mio contributo, partendo da ciò che certamente non avevamo scelto, per trasformare la discontinuità in occasione di miglioramento.
Se mi volto indietro, tornando agli anni in cui mi occupavo di analisi di bilancio e i primi neo-laureati si affacciavano agli uffici della Popolare, ricordo che ci chiedevamo se saremmo mai riusciti a diventare funzionari: era quello l’obiettivo professionale. Poi però si va avanti, costruendo il proprio futuro giorno per giorno. E io ho avuto l’occasione – mi verrebbe da dire la fortuna – di compiere l’intero percorso all’interno della stessa azienda, fino a ricoprire l’incarico attuale. Spettano ad altri i giudizi sul mio operato, ma credo di poter dire, con un filo di orgoglio, qual è stata la lezione più grande che ho appreso: essere sempre aperto ad accettare le sfide che mi venivano proposte. Così, ad esempio, sono passato da un’attività tecnica avanzata sui bilanci delle aziende a un ruolo tipicamente operativo in rete, di cui allora faticavo a vedere lo sbocco, ma che invece è stato fondamentale per acquisire una visione completa della banca. E poi ho accettato con slancio di avviare attività mai svolte prima: dalla costruzione del Nucleo di finanza aziendale al lavoro sulla parte strategica, prima con le operazioni di acquisizione e più tardi con la ricomposizione del Gruppo. Quindi la Direzione Generale in Sardegna, il ritorno come Chief Financial Officer e infine il “salto” da Vice Direttore Generale ad Amministratore Delegato. Credo di avere contribuito a rinnovare la banca con il mio impegno costante e con una forte tensione al cam- biamento, alimentata dall’attenzione continua all’aggiornamento professionale. Ma ogni sforzo sarebbe risultato inutile, se non vi fosse stata la coesione e unità di intenti che ha sempre caratterizzato i rapporti all’interno della Direzione Generale.
Dunque non ho dovuto cercare il cambiamento in altre aziende, perché l’ho sempre trovato in questa banca. A suo tempo c’è chi ha puntato su di me, ora ho a fianco una generazione di dirigenti più giovani che si sta affermando. Alcuni hanno seguito un percorso con responsabilità crescenti, altri hanno cambiato mestiere in modo radicale. È importante far emergere le professionalità interne, ma anche attingere all’esterno quando è necessario. Con una visione che senza perdere la prospettiva di medio e lungo periodo deve essere molto concentrata sulle cose da fare qui e ora, affrontando ogni sfida con unità di intenti e con il contributo fondamentale della squadra. Questi anni da Amministratore Delegato sono stati densi di novità e trasformazioni, a partire dal passaggio di Bper, nel novembre 2014, sotto la vigilanza diretta della Banca Centrale Europea. Un evento che ha modificato la natura stessa dei rapporti: quelli con la Banca d’Italia si basavano su paradigmi consolidati, mentre con Francoforte c’è una dialettica diversa, più simile al confronto con gli analisti finanziari, anche se il percorso di allineamento a queste nuove modalità di relazione è complesso e non ancora completato. Le occasioni di contatto con BCE si sono moltiplicate nel tempo, allargandosi ai vertici dell’istituzione: ad esempio ho avuto più volte l’opportunità di incontrare Danièle Nouy, responsabile della Vigilanza unica europea. Ricordo che fin dai primi viaggi a Francoforte l’impatto con la nuova sede della Banca Centrale è stato forte: l’edificio ha un alto valore simbolico, trasmette solidità e importanza. L’esperienza più stimolante, però, è sempre quella delle riunioni fianco a fianco con i colleghi di altre banche europee, che allargano l’orizzonte e il confronto ben oltre i nostri usuali confini. Il mestiere di “fare banca”, intanto, è profondamente cambiato. In un passato nemmeno troppo lontano quasi tutto ruotava intorno alla gestione del rapporto con la clientela, specie nell’attività creditizia. Oggi, invece, parliamo di tematiche mai affrontate fino a qualche tempo fa: risk management, compliance, indicatori di leverage e di liquidità. La struttura di un Gruppo o di una banca, di qualsiasi dimensione, è molto più articolata. Una volta contavano la solidità patrimoniale, intesa in maniera generica e un po’ grossolana, e una buona gestione dell’ambito creditizio. Ora è tutto più complesso: basta pensare alla pressione degli ultimi anni sui ricavi e soprattutto sul margine di interesse. Quindi non è semplice riuscire a mantenere in equilibrio conti economici e situazione patrimoniale. Tutto il sistema bancario, inoltre, ha l’obiettivo primario di mettere in sicurezza il tema dei non performing loans, per ritrovare un profilo di redditività corretto e stabile nel tempo. Ecco perché, guardando un attimo alla nostra banca, credo che poter contare su una solida situazione patrimoniale, dopo aver mantenuto l’equilibrio economico anche negli anni più difficili, sia un tratto distintivo e il presupposto per raggiungere ulteriori traguardi. Il Gruppo Bper ha sempre puntato alla crescita, che non è solo dimensionale ma significa capacità di innovare, far evolvere l’attività, completare la gamma dei servizi. Nell’ultimo periodo, segnato dalle difficoltà di molti Istituti di credito, abbiamo registrato un andamento positivo e siamo stati chiamati a un forte impegno per evitare crisi bancarie sistemiche. Ciò è avvenuto sia con sacrifici economici importanti, sia con un recente intervento diretto che ha riguardato uno degli Istituti in difficoltà, Nuova Carife, le cui radici sono in Emilia Romagna, la nostra storica regione di insediamento.
Nel presente e nell’immediato futuro ci aspetta un compito molto importante: gestire compiutamente la trasformazione di Bper da cooperativa a società per azioni, già formalmente avvenuta a fine 2016. Per come ho vissuto in profondità l’esperienza della banca popolare, non mi sarei mai aspettato di essere proprio io l’Amministratore Delegato destinato a guidare questo passaggio storico. Credo, però, che siamo riusciti finora a fare un buon lavoro. Adesso si apre una nuova fase – ed è la prossima sfida – in cui la relazione con i Soci assume caratteristiche diverse e apre ulteriori percorsi di sviluppo. Intanto ho avuto la soddisfazione particolare di vivere, in questo 2017, una serie di eventi e celebrazioni per i 150 anni dalla fondazione della banca, che nacque nel 1867 su iniziativa di un gruppo di cittadini modenesi illuminati. Credo che la storia di BPER Banca – è questo il nuovo brand introdotto nel 2015 – sia bella e interessante proprio perché racconta un legame forte con i territori. Una storia che 150 anni fa non è nata in una metropoli, ma in una piccola città e in una provincia dove è molto diffuso lo spirito imprenditoriale. E proprio dall’attenzione al rapporto con le imprese e con le comunità è arrivato lo stimolo a crescere che ci caratterizza da sempre. Ripensando al mio percorso in banca, ho potuto constatare che il lavoro e la vita personale e familiare spesso si sovrappongono. In molte occasioni mi sono trovato davanti a un bivio e le mie scelte avrebbero potuto indirizzarmi da tutt’altra parte. Ma in questi casi avere avuto a fianco le persone giuste, sul lavoro e nella vita, mi ha aiutato a seguire la strada migliore, quella che mi ha condotto a vivere un’esperienza straordinaria. Alla fine ti rendi conto che ciò che rimane non è il traguardo o il successo, ma l’impegno e la passione che hai profuso lungo il cammino. Per questa ragione, la destinazione del mio percorso professionale avrebbe potuto essere anche molto diversa, ma sono certo che avrei provato la medesima soddisfazione. Oggi seguo da vicino il percorso dei miei figli, che come spesso accade prende direzioni inaspettate, ed è giusto che sia così. Un esempio? Riccardo, che ha la passione per la batteria, pur essendosi laureato in Giurisprudenza con 110 e lode, medita di aprire una sala d’incisione. Ma forse era da prevedere, visto che sognavo di fare il chitarrista rock e alla fine sono diventato l’Amministratore Delegato di una banca. Nicolò, invece, è orientato a lavorare in una società di revisione, a riprova del suo grande interesse per la contabilità e i bilanci. Marta, la più giovane, deve fare ancora un po’ di strada, ma coltiva già una grande passione per le lingue, l’inglese in particolare. E non perde occasione per fare pratica anche a Londra, dove di tanto in tanto riusciamo a rifugiarci nei fine settimana. Così l’orgoglio di padre ritrova in tutti un pezzetto di sé.