Auto: la crisi del diesel mette a rischio decine di migliaia di lavoratori

0
48

Roma – La crisi che ha coinvolto le auto diesel ha colpito gravemente molte imprese della componentistica, soprattutto in Italia. Il 77% di queste aziende non è coinvolto nei nuovi modelli elettrici ed ibridi. Un handicap che rischia di travolgere un settore in cui l’Italia è sempre stata all’avanguardia. Anche gli aspetti occupazionali non sono da sottovalutare. Secondo Il Sole 24 Ore si tratta di 240 imprese con 25mila addetti. I casi più celebri sono riguardano il gruppo Mahle in Piemonte, l’impianto Fca di Pratola Serra, in provincia di Avellino ed infine la Bosch di Modugno. Tre situazioni diverse ma accomunate dalla scarsa lungimiranza del management.

In bilico gli stabilimenti della tedesca Mahle in Piemonte

Mahle GmbH è un produttore di componenti automobilistici con sede a Stoccarda, in Germania. È uno dei maggiori fornitori automobilistici in tutto il mondo. A fine ottobre la multinazionale tedesca del settore automotive annuncia la chiusura dei due siti piemontesi (stabilimento produttivo a La Loggia, alle porte di Torino, e una fonderia a Saluzzo, nel Cuneese) dove lavorano almeno 450 addetti.

L’azienda in una nota parla di “anni critici dal punto di vista economico” e spiega che “la riduzione degli ordini a livello europeo, principalmente nella produzione di motori diesel, ha notevolmente ridotto la capacità produttiva”. Fortunatamente i sindacati sono riusciti ad ottenere dopo lunghe trattative la sospensione di 60 giorni della procedura di licenziamento per i 453 lavoratori coinvolti. Il destino di quest’ultimi continua comunque ad essere in bilico. Non basteranno certo sessanta giorni per far crescere gli ordinativi. Quindi, a breve le parti coinvolte torneranno al tavolo del ministero dello Sviluppo Economico. E come in un infinito gioco dell’oca si riparte dall’inizio.

All’apparenza nulla si può rimproverare all’azienda: il calo dei volumi porta inesorabilmente ai tagli del personale. Tra i lavoratori, però, serpeggia il dubbio che i tedeschi vogliono delocalizzare l’intera linea produttiva in Polonia. Se così fosse ci troveremmo di fronte all’ennesimo schiaffo dato da una multinazionale alla professionalità delle maestranze italiane. Senza contare il danno al tessuto produttivo del Piemonte dove si concentrano oltre un terzo delle imprese della componentistica auto Made in Italy.
L’onda d’urto del Dieselgate arriva anche in Irpinia

Dal Nord al Sud la situazione non cambia. Anche i dipendenti di un gigante come Fiat Chrysler rischiano di pagare caro l’inchiesta Dieselgate contro Volkswagen. Da Wolfsburg a Pratola Serra il passo è breve. A parlare sono i numeri: nell’impianto irpino nel primo semestre del 2019 sono stati realizzati 150mila motori diesel, il 30% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018. L’azienda non ha comunicato nulla ma ci hanno pensato i sindacati a rendere pubblico che per il mese di dicembre 2018 i programmi di lavoro prevedono soltanto quattro giornate attive, per il resto ci sarà la chiusura di fine anno e la cassa integrazione. Siamo in piena “riorganizzazione produttiva” che tradotto significa: diminuzione di ore lavorate con un’inevitabile contrazione della busta paga.

Per placare gli animi dei dipendenti l’azienda ha promesso per l’anno prossimo la produzione di una nuova gamma di diesel Euro6d destinata al Ducato. Inoltre è previsto l’avvio di una riconversione che dovrebbe riguardare le nuove soluzioni motoristiche (ibrido ed elettrico). Difficile dire se questo potrà bastare, intanto l’aria che si respira a Pratola Serra è pesante e la colpa non è certo dei gas di scarico.
Bosch di Modugno: da “pionieri” a esuberi

La crisi di un settore non risparmia neanche le sue eccellenze. È il caso della Bosch di Modugno. In questo stabilimento, un tempo in mano alla Fiat, negli anni Novanta è stata inventata la pompa ad alta pressione, componente che oggi si ritrova praticamente in quasi tutti i motori delle auto diesel. Gli operai pugliesi si sono specializzati nella produzione di pompe per sistemi common rail. In ballo ci sono 620 lavoratori. Si tratta, infatti, della seconda industria pugliese per numero di occupati dopo l’ex Ilva di Taranto con 1.840 dipendenti.

Da due anni si assiste ad un triste tira e molla tra azienda, governo e sindacati. Nel 2017 fu firmato un accordo per blindare i livelli di occupazione fino al 2022 (grazie a un mix di cassa integrazione, ferie e permessi). Lo scorso luglio, i tedeschi ci ripensano: per salvare il sito è necessario il licenziamento di 620 lavoratori. Si susseguono quattro mesi di trattative frenetiche che ad oggi non hanno prodotto nessun risultato. Per questo il 28 novembre lo stabilimento pugliese si è completamento fermato: è stato indetto uno sciopero di otto ore che ha avuto un’adesione del 100%. Mentre le maestranze incrociavano le braccia, veniva convocato un incontro a Roma (nella sede del ministero per lo Sviluppo economico) tra sindacati, azienda e regione Puglia. Il vertice si è concluso con un nulla di fatto. L’azienda è rimasta sulle sue posizioni, il governo ha lanciato la palla a metà campo chiedendo un incontro con il management europeo di Bosch, mentre sui dipendenti pende ancora la spada di Damocle del licenziamento. Ora i sindacati si rivolgono direttamente ai membri dell’esecutivo chiedendo “strumenti straordinari con investimenti per la transizione del settore per la salvaguardia dell’occupazione”.

Ma quante risorse saranno necessarie per risollevare un settore che vive una crisi profonda? Tante forse troppe se non vengono incanalate nella maniera più opportuna. Da quando è scoppiato il caso mondiale dei dati sulle emissioni truccati dalla tedesca Volkswagen, infatti, il mercato europeo delle auto a gasolio è passato dal 51,5% del 2015 al 35,4% del 2018. E quest’anno, complice l’economia stagnante, le cose non stanno migliorando. Al momento, l’unica certezza che in mancanza di investimenti privati e pubblici l’intero settore dell’auto non uscirà dalle sabbie mobili di questa crisi.

Salvatore Recupero