AZERBAIGIAN ANNO ZERO

0
86

Su invito delle autorità dell’Azerbaigian, assieme a una delegazione di parlamentari italiani, sto visitando in questi giorni il Paese a poche settimane dalle battaglie che hanno chiuso con un nuovo ordine militarizzato (garantito internazionalmente) una lunga fase della guerra della regione del Nagorno Karabakh e dintorni, una porzione di territorio poco più piccola del Trentino Alto Adige, un settimo dell’intero Azerbaigian.
In ogni strada di questo importante paese turcofono della regione transcaucasica vedo facciate e muri pavesati sempre con due bandiere affiancate, quella dell’Azerbaigian e quella della Repubblica di Turchia; in alcuni punti compare anche la bandiera di Israele: un aperto riconoscimento del ruolo giocato da Ankara e Gerusalemme nell’equipaggiare l’esercito azero con armamenti di ultima generazione e consentirgli così di vincere la guerra del 2020 ai danni dell’Armenia.
Ovunque leggo manifesti con scritto “Qarabağ azərbaycanlıdır” (il Karabakh è azerbaigiano). Una guerra vinta non è mai un evento solo militare. Si collega a un prima e un dopo fatto di mobilitazione mediatica che diventa tutt’uno con il paesaggio geografico e con quello delle relazioni politiche. È con questo spirito che osservo i luoghi che visitiamo (profanati dalle voragini aperte dai colpi d’artiglieria e dai missili armeni), nonché gli sguardi dei parenti delle vittime della guerra (che implorano solidarietà e memoria davanti alle telecamere schierate da tutte le emittenti nazionali azere). Ed è con questo stesso spirito realista che ascolto i resoconti precisi dei politici e diplomatici che estraggono le loro accurate ragioni dal ginepraio plurisecolare di scontri, attacchi, durissime rappresaglie reciproche di questa regione, in uno dei tanti tasselli del complicatissimo mosaico etnico transcaucasico.
Il velo diplomatico, quello mediatico, quello degli affari energetici e della politica, tutti questi veli si adagiano sulla verità. Sarà ancora limpida? Lo è: osservo e ascolto la vecchia signora della città di Ganja, consumata dagli anni e dalla sofferenza, due occhi blu ancora giovani, che mi racconta il suo duro frammento di verità. Viveva da 4 anni con un nipote di 10 anni nato in Russia e rimastole in affidamento. Quest’estate l’altra nonna, che vive in Russia, aveva proposto al bambino di andare da lei e proseguire lì il percorso scolastico, ma lui è voluto rimanere in Azerbaigian. Il 17 ottobre un missile Scud partito dal suolo armeno ha raso al suolo la casa spegnendo quella giovane vita. La donna piange il nipote e osserva la delegazione parlamentare deporre dei garofani rossi sull’orlo del cratere dove prima c’era l’abitazione, circondata da altre case distrutte, in mezzo a mobili, giocattoli, infissi proiettati a distanza, in uno scenario spettrale illividito dal cielo plumbeo.
Il fatto è che la verità è un prisma fatto di tante facce tutte altrettanto vere, anche se si nascondono o elidono a vicenda. Immagino che se ora cambiassimo fronte, in questa guerra che ha fatto più di duemila morti per parte (di cui civili poco meno di un centinaio per parte), il prisma ci mostrerebbe, fra gli armeni dell’Azerbaigian, una verità con un suo dolore e una sua storia di torti subiti e conquiste pagate a caro prezzo. Incontreremmo anche lì una signora che racconterebbe una storia vera di un nipote perduto in una guerra vera.
La pace è da costruire, ma ha basi in divenire che gli ospiti azeri ci hanno spiegato in dettaglio. Gli accordi raggiunti a seguito della pesante sconfitta sul campo dell’Armenia sono affidati alla mediazione del broker più dotato e inaggirabile per lo spazio post-sovietico, la Russia, che con i suoi soldati garantisce la protezione degli armeni del Nagorno Karabakh, oltre ai corridoi che garantiscono sia il collegamento di questa enclave con il territorio della Repubblica di Armenia, sia quello fra l’Azerbaigian e l’enclave azera in Armenia, il Nakhchivan.
Il resto di quel vastissimo territorio-cuscinetto contiguo al Nagorno Karabakh che fu occupato dall’esercito armeno a partire dal 1992-1994 adesso rientra nelle mani degli azeri, che vorrebbero farvi tornare una parte dei 750mila sfollati che si erano sparsi in tutto il Paese. Cosa troveranno oggi?
Me lo chiedo mentre attraverso le pochissime vie percorribili di una città fantasma, Ağdam, quanto di più affine a un film post-apocalittico possiamo trovare nel reale. Infatti gli azeri la chiamano “Hiroshima del Caucaso”. Nel 1993 aveva 60mila abitanti, molti tifosi di una squadra di calcio competitiva, il Qarabağ Ağdam, industrie, scuole, il brulicare di una vivacità urbana in espansione, avamposto militare nelle scaramucce a danno del Nagorno Karabakh. Ağdam fu svuotata in estate dalla battaglia asperrima fra azeri e armeni, i quali ultimi la occuparono dopo incessanti bombardamenti, senza un solo abitante o un solo soldato rimasto in loco, e la spogliarono di tutto nei mesi successivi. È la più grande città fantasma del mondo, diroccata e lugubre, residualmente protetta dalle mine che sconsigliano di percorrerla, mentre la natura si riprende il suolo battuto dal vento della pianura. Resta in piedi una moschea, dal cui minareto osservo un mondo in macerie che aspetta di ripopolarsi. Ritornerà forse un giorno anche il football del Qarabağ Ağdam, che per 27 anni ha giocato “in esilio” a Baku, la capitale dell’Azerbaigian, arrivando ad accedere alla Coppa UEFA. Con quale spirito ritornerà? Spero non con quello del suo addetto stampa Nurlan Ibrahimov, che nel giorno del bombardamento di Ganja sosteneva in un post scritto a caldo – e poi cancellato – che tutti gli armeni, nessuno escluso, dovevano essere ammazzati. Lo spettro del revanchismo può condizionare ancora – per inerzia storica – i comportamenti concreti. Occorrerà che questa vittoria non si dimentichi le facce del prisma della verità.
Molti segnali, non oscurati dagli squilli della vittoria, fanno ben sperare in proposito. Il popolo azero ha voglia di mettersi alle spalle la guerra, e l’orgoglio panturco non si declina solo in ambito militare, ma in una vitalità commerciale che ha un senso pratico molto costruttivo, piacevolmente levantino, nonostante il Covid, che mostra anche qui la sua faccia mascherata come ovunque. La visita del sottosegretario Di Stefano, prevista i prossimi giorni, opererà per le straordinarie prospettive di interscambio tra Italia e Azerbaigian.
Anche l’alba della Repubblica italiana si confrontò con suoi mosaici etnici e territoriali segnati da un carico di dolore e risentimento lungo i confini più toccati dalle guerre mondiali, ma si trovò una strada che ha dato prosperità e benessere (e disinnescato i conflitti). Forti di questa esperienza possiamo giocare un ruolo positivo anche per la ricostruzione della regione che oggi visitiamo, rafforzando le relazioni con un paese dinamico e sempre più inserito nei giochi globali. L’Azerbaigian, a dispetto delle migliaia di chilometri che ci separano, è in realtà molto vicino all’Italia per interessi strategici ed energetici, entra nella nostra profondità strategica, oggi più estesa grazie alle infrastrutture tecnologiche.
Vedi Baku e poi ritorni.

Pino Cabras