Bellanova: “Dobbiamo sconfiggere la mafia dei campi”

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«Ho ricordi drammatici. Le condizioni nei campi erano durissime ed era l’intermediazione illegale a dettare le regole». Quando parla di caporalato, Teresa Bellanova, 61 anni, ministra delle Politiche agricole, alimentari e forestali, pensa alle sue amiche, alle sue colleghe morte negli anni in cui lei stessa lavorava come bracciante agricola. Aveva 14 anni e appena un anno dopo, da sindacalista, cominciò a battersi per i diritti di tutti.

Chi erano i caporali in quegli anni?
«Erano spesso emigranti di ritorno, che avevano raggranellato un po’ di soldi, comprato un furgone e fornivano un doppio servizio: braccia a pochi soldi per le imprese, trasporto per le lavoratrici. Il guadagno facile ha trasformato questa dinamica in vera e propria criminalità. La mia sete di giustizia inizia da lì».

Le braccianti erano tante?
«Eravamo tantissime. Stipate anche in quaranta su mezzi che potevano trasportarne al massimo la metà. Gli incidenti erano all’ordine del giorno. Facevano notizia solo se erano mortali. Quelle donne avevano bisogno estremo di lavorare ed erano sotto ricatto su tutto. In molti casi costrette a subire anche le mani lunghe dei caporali. C’era rabbia, è vero, ma anche rassegnazione. Quasi le cose non potessero cambiare. Abbiamo dovuto combattere anche questa mentalità, lottare contro un sistema in cui la sudditanza materiale era legata a doppio filo alla sudditanza psicologica. Quando dico che il caporalato è mafia, penso anche a questo».

E oggi?
«Solo chi non conosce la storia di questo fenomeno non coglie il passaggio fondamentale che ha significato la legge 199 del 2016. Che sancisce l’urgenza della repressione, con le fattispecie e gli strumenti necessari, e indica nella prevenzione e nella Rete del lavoro agricolo di qualità strumenti preziosissimi per spezzare tutte le catene che legano lavoratori e spesso anche imprese, quelle piccole e piccolissime soprattutto, a questa dinamica criminale».

Cosa funziona e cosa va migliorato in questa legge?
«Faccio una premessa: quella è una norma eccellente, una best practice a livello europeo. Ce lo hanno confermato, per l’ennesima volta la scorsa settimana, i dati diffusi dall’Arma dei Carabinieri. Indicano nel biennio 2018-2019 oltre tremila lavoratori e lavoratrici vittime di sfruttamento, 263 persone denunciate, 28 mila aziende controllate. Dunque funziona sul livello della repressione. Il punto è capire che questo è un fenomeno complesso, tutt’altro che arcaico. Insieme all’attività repressiva, dunque, è necessario concentrarsi sulla prevenzione. Per dare protezione alle persone, ai lavoratori italiani e stranieri, e risposte alle legittime aspettative di aziende agricole oneste che chiedono forme più efficienti per reperire manodopera legale. Il tema dei servizi è essenziale. Si deve intervenire con azioni coordinate su alloggi, trasporti, intermediazione legale del lavoro, controlli. È la ragione del Tavolo interministeriale che abbiamo insediato con le ministre Nunzia Catalfo e Luciana Lamorgese e del Piano triennale nazionale di prevenzione e contrasto che abbiamo presentato. Il segno di una nuova fase di lavoro per condividere a più livelli obiettivi e strumenti: sono indicate dieci azioni prioritarie – nei settori della prevenzione, vigilanza e contrasto, protezione e assistenza, inserimento socio-lavorativo -, con impegni precisi e interventi coordinati. Non esistono filiere sporche, ma comportamenti penalmente rilevanti delle singole aziende. Si chiama concorrenza sleale e dumping. Dobbiamo sconfiggerla in nome dell’economia sana e lavorare perché la lotta al caporalato investa anche altri settori oltre a quello agricolo».

È di qualche settimana fa la notizia dell’imprenditore di Terracina che sparava ai suoi lavoratori. Cosa ne pensa?
«Questo è il modo in cui si esercita la brutalità quando si crede di non avere limiti, di poter osare tutto. Assoluta mancanza di scrupoli di chi pensa di essere al di sopra di ogni legge, disponendo a proprio piacimento della vita di altri esseri umani. Questa è l’ulteriore riprova dell’urgenza di combattere il caporalato in tutte le sue degenerazioni. Per questo il Piano di azioni di cui parlavo prima implica un lavoro serrato e prevede il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti della filiera, a partire dalle stesse organizzazioni agricole».

Sono sfruttati italiani e stranieri: per questi ultimi aver reso difficile la regolarizzazione è un ulteriore ostacolo?
«Ricevo telefonate da aziende che mi dicono: non troviamo manodopera, così i prodotti marciscono. Le imprese hanno bisogno di reperirla dall’oggi al domani: è la regola del campo. Dobbiamo permettere che accada con un semplice clic, su una piattaforma legale e trasparente. Anche così si costruisce buona integrazione e si garantisce dignità, legalità, visibilità. Chi lavora nei campi non può diventare invisibile al tramonto».

L’elemosiniere del Papa, il cardinale Krajewski, è stato nei ghetti di San Severo, in Puglia, e il Papa ha plaudito all’accordo tra Comune e diocesi per l’integrazione dei braccianti. È un accordo estendibile ad altri Comuni?
«L’attenzione che il Papa ha riservato a questa bellissima esperienza è un segnale prezioso. D’altra parte, di recente, ha nuovamente invitato all’impegno contro gli sprechi alimentari, altro tema che mi sta molto a cuore. Accoglienza e inclusione sono parole chiave, la qualità della relazione tra persone e nelle nostre comunità territoriali passa da lì. Farsene carico significa anche agevolare strumenti che facciano sentire le persone meno sole e più sicure. La sicurezza non si realizza alimentando paura e allarmismi, come vorrebbe fare credere chi lucra elettoralmente e politicamente sulla costruzione del nemico sociale. Noi dobbiamo sconfiggere chi semina l’odio e il rancore».