Carletto, a zappare vacci tu

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Calenda ha sfoggiato l’ennesima perla di strafottenza e supponenza. Dall’alto del suo trono di leader politico del nanopartito “Azione”, che ormai conta meno elettori di quelli di un condominio a una sola scala, durante un’intervista radiofonica, parlando di Alessandro Di Battista e delle sue recenti dichiarazioni, ieri ha sentenziato: “in un Paese normale gli darebbero una zappa in mano e un calcio nel sedere…”.(mi scuso per lui per aver implicitamente denigrato la preziosa categoria dei lavoratori agricoli).

Carletto è così, lui non parla, sentenzia. Lui non spiega, lui ti cala i diktat. Perché lui è lui e gli altri non sono un cazzo, per dirla con il marchese del Grillo. Carletto guarda tutti dall’alto in basso perché sa. Lui sa di sapere ciò che occorrerebbe fare e come farlo. Che voi abbiate bisogno di riparare la vostra lavatrice piuttosto che di avviare una nuova rivoluzione industriale, non abbiate timore, affidatevi a Carletto Calenda. Lui c’ha il “know how”, la soluzione per ogni tipo di problema.

Ormai sono settimane, mesi, da quando ci è piombato addosso, come uno zunami, il Covid-19, che imperversa sui social (che, Salvini, levate proprio….) e su ogni altro canale di comunicazione: radio, televisioni, giornali, nessuno gli nega il suo spazio e si guardano bene dall’interromperlo. Mica come quegli scappati di casa dei 5 Stelle che, incidentalmente, rappresentano il primo partito di Governo del Paese ma non gli si fa pronunciare una frase di senso compiuto. Lui, Carletto, che col suo partituncolo radical/europeista ormai se la gioca nei bassifondi dei sondaggi fra i partitini che ambiscono a uscire dal ghetto dei consensi decimali, è gradito ospite ovunque vada. Te lo ritrovi a sentenziare con aria saccente, spocchiosa e supponente che questo Governo, alle prese con una crisi economica senza precedenti, non ce la potrà fare perché “non-sa-fare-le-cose”. Che poi, se vai a ritroso nella sua brillante carriera di manager prima e politico poi, qualche domanda te la fai. Tipo questa: se non fosse nato, figlio d’arte, da una famiglia bene dei Parioli, Carletto che sarebbe riuscito a fare nella vita? Che “self made man” sarebbe stato se nonno e mamma Comencini non l’avessero affidato alle amorevoli cure di Luca Cordero Di Montezemolo che, appena ha finito gli studi, se l’e’ portato con se alla Ferrari, poi in Sky quindi in Confindustria?

E anche riguardo alla sua “irresistibile” carriera politica avrei più di una perplessità sulle sue doti di comunicatore e uomo del fare, se è vero come è vero che è iniziata, ma guarda un po’, sempre grazie ai buoni uffici di Luca Cordero di Montezemolo, che l’ha nominato, nel 2009, coordinatore della sua “Italia Futura”. E da lì ad arrivare al governo del Paese, dopo aver contribuito all’infelice debutto in politica di Mario Monti, il passo è stato breve. Nel 2013 s’è ritrovato, per meriti tutti da dimostrare, a fare il Viceministro dello Sviluppo Economico del governo Letta prima e Renzi poi, fino a che quest’ultimo, dopo avergli fatto tentare una nefasta esperienza a Bruxelles (durata appena 2 mesi), non gli ha dato la titolarità del Ministero, giusto il tempo di cacciare la Ministra Federica Guidi caduta in disgrazia. E con Matteo Renzi Carlo Calenda ha condiviso peccati mortali come la cancellazione della Cassa Integrazione per Cessazione (e chissenefrega delle migliaia di famiglie di lavoratori che ha messo sul lastrico prima che “gli zappatori” 5Stelle non la reintroducessero), e quell’ignominia del Jobs Act, che i lavoratori li ha spogliati di tutele, almeno fino a che non è subentrato Di Maio a metterci una pezza col Decreto Dignità.

Ed é nel ruolo di ministro dello Sviluppo Economico, durato poco più di un paio d’anni, che Carletto ha dato “il meglio” di se. Dopo il parapaponzi costruito attorno al suo piano Industria 4.0 (che in mano a lui si è concretizzato in un tripudio di sgravi fiscali alle imprese), Carletto Calenda passerà alla storia per aver lasciato sul tavolo del suo successore, Luigi Di Maio appunto, roba come 162 crisi aziendali, nodi pesanti che hanno messo allo sbando 180mila lavoratori, come quelli di Fincantieri, Alitalia e Almaviva, Mercatone Uno, tanto per citarne alcuni.

Un fiasco tirava l’altro, fino a quello che io ritengo essere stato il suo capolavoro (all’incontrario, s’intende): la crisi Ilva. L’ha tolta dalle mani dei Commissari di Governo per metterla in quelle degli indiani di Mittal attraverso una gara europea. Li ha voluti fortemente i Mittal, Carletto, fino a negare un sacrosanto ricorso (e annesso rilancio d’offerta), di una cordata a maggioranza italiana che si era impegnata a decarbonizzare al 100% gli impianti. Mentre da più parti gli arrivavano moniti e letteracce (prime fra tutti quelle del Presidente della Puglia Michele Emiliano, un grillino a sua insaputa, l’ho sempre definito), Carletto non ha capito (o voluto capire?), che gli indiani di Mittal, a Taranto, erano venuti per liquidarla l’Ilva, non per rilanciarla. Volevano far fuori un pericoloso competitor dell’acciaio. E la nostra storia recente ci insegna che, purtroppo, ci sono riusciti.

Questo è Carletto Calenda. Se c’è uno che si gioverebbe di una sana ed educativa carriera nel settore agricolo, a zappare nei campi, questo è lui. E con annesso calcio al sedere.                                      (Roberta Labonia)