Coronavirus e altre epidemie di un’economia iperglobalizzata

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Ormai è psicosi coronavirus: media e giornali trasformati in bollettini di guerra, social network in cui gli utenti si trasformano in necrofili, virologi assurti a nuove pop star (per fortuna non tutti). I danni per l’economia italiana cominciano a farsi sentire violentemente: secondo la Confcommercio sono già stati bruciati in poche settimane 2 miliardi di euro di mancati consumi, con una perdita di 20 mila posti di lavoro. Sono le conseguenze di uno stato di panico diffuso tra la popolazione che può avere effetti socio-economici disastrosi. Mentre il virus si diffonde nel resto d’Europa e del mondo, man mano che i test di positività vengono effettuati anche negli altri Paesi, in Cina il trend di mortalità legato al virus inizia la sua fase decrescente. Ci sono buone possibilità che la fase più acuta stia per essere superata e che l’epidemia si avvii verso un superamento. Non sarà certo facile per il Dragone asiatico rialzarsi in piedi, dopo il danno economico e d’immagine subito su scala planetaria, ma il decisionismo fattivo del suo governo lascia presagire una tempestiva ripresa. Più incerto e preoccupante è il destino delle nostre economie, che dipenderà dal livello di lucidità con cui sapremo affrontare questa situazione senza farsi prendere dal panico, per ora purtroppo alquanto inadeguato.
Lo Smart Working come innovazione lavorativa

Vari spunti di riflessione si possono trarre a caldo da questa situazione imprevista, che ha gettato tutti nel caos. Innanzitutto, il ricorso a forme di lavoro “intelligenti” – il cosiddetto Smart Working – utilizzato dalle Regioni italiane coinvolte dalla diffusione del virus rappresenta un’opportunità che può essere utilizzata anche superata l’emergenza. Quanti lavori potrebbe essere svolti a distanza, dalla propria abitazione o da qualsiasi altro luogo, utilizzando un device?

Come da definizione del ministero del lavoro, lo Smart Working è “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro”.

I benefici di una sua introduzione sarebbero molteplici, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro: il primo potrebbe gestire meglio il proprio tempo e conciliare vita lavorativa e familiare, mentre il datore di lavoro potrebbe riscontrare – come emerso da diversi studi sulla sperimentazione di forme di lavoro flessibili – un aumento di produttività. Inoltre, si ridurrebbero i costi fissi legati alla struttura lavorativa, come la locazione degli uffici, le spese delle utenze, ecc. Benefici tangibili della diffusione dello smart working sarebbero poi la riduzione del traffico urbano, la scelta di poter vivere fuori città senza più la necessità per molti di trasferirsi per essere più vicino al luogo di lavoro. Insomma, una serie di spillover positivi sia a livello economico che sociale, con un effetto congiunto e moltiplicativo sul livello di benessere collettivo. Ci auspichiamo dunque che da questa sciagurata e passeggera emergenza possa nascere un incentivo a una forma innovativa e migliorativa di organizzazione lavorativa.
L’insostenibilità dell’iperglobalizzazione

Ma le riflessioni non finiscono qui. Dalla Sars all’aviaria fino all’attuale coronavirus, l’elenco delle epidemie, in gran parte provenienti dalla Cina, propagatesi su scala mondiale riportano nel dibattito la questione dell’insostenibilità dell’iperglobalizzazione. Il Dragone cinese, dopo l’ingresso nel WTO, è divenuto a tutti gli effetti la fabbrica del mondo, di qualsiasi bene, in grado di produrre a un prezzo più basso e competitivo per il mercato globale. Non solo tecnologia, abbigliamento, prodotti per la casa, ma anche generi alimentari che hanno invaso le tavole di tutto il mondo. Pensiamo al racconto del giornalista Stefano Liberti nel suo “I signori del cibo”: la filiera dell’allevamento di maiali conta circa 700 milioni di esemplari in Cina, in allevamenti intensivi in cui gli animali sono ammassati e stipati, imbottiti di antibiotici a scopi preventivo, col fine di ridurre ogni costo possibile.

Al momento nel Paese, oltre al coronavirus, è in atto un’epidemia molto virulenta di peste suina africana -nata in Africa e diffusasi su larga scala in Asia e in particolare in Cina, dove gli allevamenti intensivi aumentano la velocità di propagazione del virus. L’epidemia sta infliggendo una grande perdita all’industria locale e all’export di prodotti suini nel resto del mondo (l’UE ha adottato una direttiva che ne vieta attualmente l’importazione). Un’emergenza alimentare che riporta alla memoria il caso, non troppo lontano, dell’aviaria legato all’allevamento intensivo di polli.

Consideriamo poi che per nutrire questa colossale produzione di bestiame, Pechino importa ogni anno 70 milioni di tonnellate di soia dal Brasile. Data l’ingente richiesta un’intera area del Sud America, peraltro molto povera, ha finito per specializzarsi unicamente in quelle colture, tanto da essere stata ribattezzate “Repubblica unita della soia”. Gli effetti sono nefasti sotto un duplice aspetto: da una parte si impoverisce il terreno, utilizzato in modo intensivo per una sola coltura, con ripercussioni sull’intero ecosistema, dall’altro si rende fragile l’economia locale, che non diversifica la produzione e si basa sull’esportazione di un’unica materia prima.

Un altro esempio di come operano i Signori del cibo è quello dei pomodori, prodotti su larghissima scala in Cina, che sbarcano in Italia, diventano passata di pomodoro e vengono esportati in Ghana, dove le poche fabbriche locali sono state costrette a chiudere, aggravando la povertà locale. È chiaro che un modello economico basato unicamente sul criterio del profitto, delle liberalizzazioni e della concorrenza sfrenata sia insostenibile, per l’economia e per l’ambiente. Se non siamo noi a ribellarci, riscoprendo un’economia più a misura d’uomo, dove la filiera sia più corta e controllata, dove le delocalizzazioni siano l’eccezione e non la regola, con un freno all’iperproduzione e all’iperconsumo, sarà la natura stessa a ribellarsi. Come sostiene l’economista D. Rodrik, occorre passare dall’attuale iperglobalizzazione a una “globalizzazione intelligente”, un’economia umana.

Ilaria Bifarini