Cosa chiede il Nord al Pd? Quali sono le priorità di questi territori?

0
55

Cosa può dare il Nord al Paese?
Ne abbiamo parlato venerdì e sabato a Milano, a “NORD FACE – Lavoro, sviluppo e ambiente: il Nord per l’Italia”. Questo è stato il mio intervento introduttivo:

Le due giornate di Nord Face sono state pensate per mettere idealmente intorno al tavolo la società civile del Nord, nelle sue espressioni più qualificate – protagonisti del mondo del lavoro e dell’impresa, del privato sociale e delle competenze professionali – e il Partito Democratico: dal suo segretario ad alcuni importanti ministri del governo in carica, i suoi amministratori locali, i suoi quadri. Per dirci cosa serve e cosa vogliamo per questa parte del Paese e quindi per tutto il Paese, quali sfide ci aspettano, quali priorità dobbiamo porre in testa alla nostra agenda.

Per provare a mettere avanti qualche spunto partirei peraltro proprio dal governo.
Quanto è attento alle istanze del Nord?

– In questi mesi il governo è stato da più parti di accusato di avere un approccio eccessivamente meridionalista, a partire forse dalla sua composizione. Questo a suggerire una scarsa considerazione delle istanze del NORD.
– Io non credo che sia così. Ma è vero che questa parte del Paese, data la sua vocazione produttiva, industriale e manifatturiera, esprime un’attenzione molto specifica ai temi della crescita. E fin qui – tra priorità ereditate, come il disinnesco delle clausole IVA, emergenze che sono diventate ulteriori priorità, come Ilva e Alitalia, e i vincoli dettati dai partner di governo su partite rilevanti come Quota 100 e Reddito – non c’è stato grande spazio per misure “di peso” dedicate a rilanciare la crescita.
– E’ vero: si è realizzato un primo intervento di riduzione del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori, sono state ripristinate le misure di Industria 4.0 e si sono prospettati rilevanti investimenti, nei prossimi anni, a sostegno della transizione ecologica.
– ma se vogliano guardare con obiettività alle aspettative dei cittadini e delle imprese di questa regione e delle altre regioni del Nord va riconosciuto che si aspettava e si aspetta un segno più netto.
– Perché ce n’è bisogno oggettivo, come dimostrano i dati che vado ad elencare.

– Dal 2000 al 2018 il ns Paese è passato da un reddito pro capite che era pari al 103% della media della zona euro all’86%. Siamo l’unico Paese ad aver perso 17 punti tra i 19 Paesi dell’area euro (e 25 punti tra i 28 Paesi dell’Unione Europea).
– Mentre tutti aumentavano il loro PIL pro capite, l’Italia è l’unico Paese ad avere un PIL pro capite ancora oggi inferiore a quello che aveva nel 2000.
– Da quando abbiamo toccato il fondo, nel secondo trimetre 2013, il PIL è aumentato del 4%: meno della metà rispetto a Grecia, Portogallo e Finlandia, penultimi in classifica. Il recupero in Spagna e Giappone è stato di due volte e mezzo l’Italia, in Francia di tre volte, in Germania di oltre 4 volte, in GB di più del quintuplo e in Svezia di oltre 6 volte.
– Dopo la grande depressione gli altri hanno ripreso a correre, noi siamo rimasti praticamente fermi. Sono ripartiti tutti: Paesi che hanno praticato l’austerità e Paesi che non l’hanno fatto, Paesi dell’euro e Paesi con moneta nazionale. Noi no.
– E’ vero, siamo usciti per ultimi dal tunnel e a differenza degli altri Paesi, meno indebitati, abbiamo affrontato con maggiore lentezza la crisi bancaria.
– Ma sappiamo che c’è molto d’altro.
– Scontiamo un basso tasso di attività, specialmente femminile e giovanile.
– Scontiamo un serio problema demografico: abbiamo pochi giovani e sempre più anziani (e anche solo questo suggerirebbe l’adozione di un approccio ben deverso al tema dell’immigrazione).
– Scontiamo soprattutto una bassa produttività.

– La produttività è la misura dell’efficienza dell’economia di un Paese, è il principale motore della crescita. E in Italia è stagnante dagli anni Novanta. La Produttività totale dei fattori, che indica la capacità di incorporare le innovazioni tecnologiche, è ferma ai livelli del 2000. Come se il progresso tecnico degli ultimi 20 anni non ci avesse nemmeno sfiorato.
– Nella nuova economia globalizzata e digitalizzata crescono come sappiamo le imprese che sono integrate nella catena globale del valore e che operano nei settori ad alto tasso di innovazione. In Italia sono poche le imprese che hanno entrambe le caratteristiche.
– Non parliamo del Sud. Al Nord, visto che siamo qui per parlare del Nord: molte imprese manifatturiere sono integrate ma operano in settori tradizionali, sono quindi più esposte alla concorrenza dei paesi a basso costo. E soprattutto le nostre imprese sono perlopiù piccole, e faticano quindi a trarre vantaggio dai cambiamenti tecnologici perché caratterizzate da una minore qualità dei processi manageriali.
– Per anni ci siamo raccontati che “piccolo è bello”. La realtà è che la produttività delle imprese con più di 200 dipendenti è superiore del 16% rispetto a quelle che ne hanno tra 100 e 200 e del 30% rispetto a quelle che ne hanno tra 20 e 100. Non parliamo di quelle più piccole. Peccato che in Italia le piccole siano più del 90%.
– Ancora: scontiamo la bassa spesa in ricerca e un sistema formativo antiquato;
– Scontiamo i riflessi di un debito pubblico elevato, la carenza di infrastrutture, il cattivo funzionamento della Pubblica amministrazione e della Giustizia, l’alto livello dell’evasione fiscale, l’elevata età media della nostra forza lavoro, l’eccessiva centralizzazione della contrattazione, che non riflette le differenze di produttività.

– Nel nuovo mondo digitale il valore aggiunto è dato dalla conoscenza e vince chi è capace di innovare. Oggi, su questo piano, non siamo competitivi – o lo siamo troppo poco. Se l’Italia non cambia le caratteristiche della sua struttura produttiva rischia di diventare la periferia economica dell’Europa, posizionata sui segmenti di minor pregio della catena del valore.
– E non c’è quindi da stupirsi, con queste premesse, se abbiamo ANCHE un problema salariale. Certo, in tutti i paesi industrializzati assistiamo al divaricarsi della forbice tra produttività e salari. Se ne avvantaggia la remunerazione del capitale, sempre più difficile da sottoporre alla giusta imposizione fiscale. C’è un problema, comune anche ad altri Paesi, di polarizzazione del mercato del lavoro, con tanti lavori di bassa qualità e di bassa remunerazione. Ma se tra il 2009 e il 2019 i salari francesi sono cresciuti del 7%, e quelli tedeschi dell’11%, mentre i nostri sono scesi del 2%, la colpa non è del capitalismo selvaggio. Esiste un problema italiano che si chiama produttività.
– Se vogliamo che crescano i salari deve innanzitutto crescere la produttività, ed è questa dunque la doppia domanda, forte, che viene dalle imprese e dai lavoratori del Nord, dell’industria e dei servizi.

– Io credo che questo punto – come si rimette in moto il paese, come lo si rende produttivo e competitivo alla scala europea e globale, come si aumentano produttività e salari – riassuma in larga misura le istanze che il Partito Democratico è chiamato a raccogliere ed interpretare se vuole credibilmente interpretare la società del Nord e, soprattutto, riannodare il suo rapporto con i ceti produttivi – dagli operai agli imprenditori, piccoli medi e grandi, dai lavoratori servizi a chi opera nell’economia della conoscenza. Se vuole tornare davvero ad essere il partito del lavoro e dei lavoratori. E e si vuole tornare a vincere al Nord.

– Non che non ci siano, anche in questi territori, problemi di povertà, fragilità e sofferenze. Ma se c’è una cosa che qui è pragmaticamente chiara è che per rendere concreta la nostra vocazione alla giustizia sociale, per rendere più forti le reti di protezione, è necessario che il Paese riparta, torni a produrre ricchezza e benessere, e il Nord non può che immaginarsi come l’elemento trainante di questa ripartenza.

– Non si aspettiamo che tutto sia fatto e risolto da Roma. Anzi. Se devo provare a dar voce all’opinione che si è sedimentata in questi anni in questi territori – non vi dico nulla che non sappiate – dico che l’aspettativa che il cambiamento possa arrivare dall’alto, o dal centro – dove per cambiamento intendo una spinta all’ammodernamento della PA, una forte semplificazione dell’apparato normativo, un’effettiva capacità di affrontare i grandi temi dell’innovazione, della trasformazione del welfare, della sfida ambientale – l’aspettativa dicevo è molto bassa.
– Il partito Democratico di queste regioni ha contestato l’uso strumentale degli strumenti referendari da parte dei governatori di Lombardia e Veneto, e ancor di più ha contestato gli argomenti demagogici e fasulli usati dalla propaganda leghista a sostegno dell’autonomia differenziata di queste regioni, ma ha chiarissimo che la gran parte dei cittadini di Lombardia, Veneto, Emilia, Liguria CHIEDE più autonomia.
– Non per togliere risorse alle altre regioni: aldilà dei valori di uguaglianza che ci caratterizzano, abbiamo chiarissimo che il Nord ha bisogno che il SUD funzioni;
Non per costruire nuovi centralismi regionali, anzi! Vediamo tutti i difetti delle nostre amministrazioni regionali (Bonaccini a parte); ma per realizzare una grande operazione di SUSSIDIARIETA’, per portare la soluzione dei problemi il più possibile vicina ai cittadini: semplicemente perché funziona meglio.
– Il regionalismo differenziato è una grande richiesta di spazi di innovazione di policy, libera dall’eccesso di vincoli amministrativi, che nasce dal basso e che deve coinvolgere innanzitutto i Comuni, a partire dalle città.
– A me pare che Francesco Boccia questo l’abbia ben colto e confido quindi che il suo progetto, che ha in evidenza la necessaria devoluzione di poteri agli enti locali, possa celermente andare a buon fine.

– Il welfare locale è uno degli ambiti che più necessità di radicali innovazioni di policy.
– Di fronte ai principali problemi sociali che abbiamo di fronte – la scarsa natalità, l’invecchiamento complessivo della popolazione, la frammentazione del corpo sociale, la solitudine, l’assenza di mobilità sociale, l’elevata quota di NEET – scopriamo infatti che il welfare tradizionale è in larga misura assente e dove c’è – penso alla non autosufficienza o alla disabilità – copre a stento il 30% del bisogno.
– La maggior parte delle risorse del welfare è quindi in mano alle famiglie, che esprimono una domanda individuale di servizi che rischia di isolare ancor di più le persone e alimenta un mercato informale e oltremodo inefficiente.
– Ecco perché è necessario trovare nuove strade, che provino ad aggregare sia la domanda che l’offerta, ad utilizzare la tecnologia, a valorizzare le reti esistenti – più o meno formali, fatte dai cittadini – in chiave di ricomposizione e riaggregazione sociale.

– A me pare questa, insieme a quella demografica, a quella ambientale – di cui non ho detto ma di cui si parlerà ampiamente in queste due giornate – e quella della produttività, di cui forse ho detto fin troppo, la grande sfida che sta di fronte al nostro Paese. E al Nord: che il Nord si candida ad affrontare in un ruolo di guida e di sperimentazione a vantaggio di tutto il Paese.
– Ci sarebbero altri temi da enunciare, come la relazione (o la distanza) tra le zone a crescita veloce – da Milano e altre città – e i territori lenti della provincia profonda, da cui nascono nuove disuguaglianze, che ritroviamo nelle urne. Non c’è un Nord, a ben vedere, ci sono tanti Nord, con significative distanze tra loro. Si parlerà anche di questo. Io intanto mi fermo e vi ringrazio per l’attenzione. Buon lavoro a tutti noi.