Da Berlusconi agli Agnelli: siamo l’Italia narcotizzata dall’establishment mediatico

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In principio fu Berlusconi. Miliardi di dubbia provenienza e spregiudicatezza crearono il primo impero mediatico italiano. I partiti di allora pensarono che la cosa fosse buona e giusta e lasciarono fare. B. comprò Telemilano e Telemilano divenne Canale 5. Poi si aggiunse Rete 4 e poi venne acquistata Italia 1 dal gruppo Mondadori. Il potere mediatico aumentava e la politica taceva. In pochi ebbero il coraggio di alzare la voce. Uno di questi fu Vittorio Feltri, penna tagliente e anticonformista prima di finire sul libro paga di Berlusconi.
“Per quattordici anni la Fininvest ha scippato vari privilegi, complici i partiti: la Dc, il Pri, il Psdi, il Pli e il Pci con la loro stolida inerzia; e il Psi con il suo attivismo furfantesco, cui si deve tra l’altro la perla denominata ‘decreto Berlusconi’, cioè la scappatoia che consente all’intestatario di fare provvisoriamente i propri comodi in attesa che possa farseli definitivamente. Decreto elaborato in fretta e furia nel 1984 ad opera di Bettino Craxi in persona, decreto in sospetta posizione di fuorigioco costituzionale, decreto che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura, in un soprassalto di dignità, e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna”. Sono parole di Vittorio Feltri. “Attivismo furfantesco” da parte del Psi.
Feltri aveva ragione da vendere, poi la ragione è stata venduta. Nel 1998, caso più unico che raro nella storia repubblicana, due ex-presidenti del Consiglio vennero condannati nello stesso processo. Quattro anni a Craxi, due anni e quattro mesi a Berlusconi. Il processo All Iberian riguardò il passaggio di oltre 20 miliardi di vecchie lire dalla Fininvest ai conti correnti svizzeri di Craxi. D’altro canto senza i decreti Berlusconi emanati proprio da Bettino il biscione sarebbe morto da un pezzo. In appello sopraggiunse la prescrizione e ingiustizia venne fatta. I DS, antenati del PD sebbene parte di quella classe dirigente dirige ancora, a parole sbraitarono, nei fatti acconsentirono.
Nel marzo del 2006, un mese prima delle elezioni politiche che videro un’esigua vittoria del centro-sinistra, Piero Ricca chiese a gran voce a Fassino durante un suo comizio a Torino se avessero intenzione di fare la benedetta legge sul conflitto di interessi. Fassino, stizzito, disse di sì senza alcuna convinzione e aggiunse: “La legge sul conflitto di interessi la facciamo ma la legge sul conflitto di interessi non dà più lavoro a nessuno”. Quanta ipocrisia.
I conflitti di interesse creano accentramento di potere, corruzione, disfacimenti democratici e quindi povertà e disoccupazione. Risolverli, produrrebbe il contrario. Ma la sedicente sinistra non solo non ha fatto nulla ma se ne è addirittura vantata. Nel 2003, parlando alla Camera dei Deputati, Luciano Violante, Capogruppo dei DS, pronunciò queste parole: “Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’Onorevole Letta. Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessione e durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte”. Fassino gli sedeva accanto.
Nonostante l’oscena connivenza, la complicità, direi il favoreggiamento di quella sinistra nei confronti della Fininvest, la pubblica opinione, quantomeno una parte di essa, si schierò contro i conflitti di interesse di Berlusconi. C’era chi si indignava, chi reputava che un tale accentramento di potere mediatico in poche mani fosse un pericolo per la democrazia.
C’era chi lottava per la libertà di stampa e chi riteneva che risolvere i conflitti di interessi fosse la priorità del Paese. Molti di questo scrivevano su Repubblica e L’Espresso, si vantavano del loro coraggio e canzonavano non solo i giornali di B. ma anche quelli della famiglia Agnelli, in quanto voce dei padroni.
Da allora l’Italia è cambiata. La Repubblica, La Stampa, Il Tirreno, Il Mattino di Padova, Il Secolo XIX, La Nuova Sardegna, Il Messaggero veneto, Il Piccolo di Trieste, La Gazzetta di Mantova, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, L’Huffington Post, Business Insider Italia, Mashable Italia, Il Corriere delle Alpi, La Nuova Ferrara, La Nuova Venezia. E poi e L’Espresso, Limes, Micromega, Radio Capital, Radio Deejay e molte altre testate radio, webRadio, webTv e siti internet hanno un unico padrone: John Elkann.
Pochi mesi fa EXOR, holding finanziaria olandese della famiglia Elkann, si è assicurata il controllo del gruppo editoriale GEDI che apparteneva a De Benedetti. EXOR è proprietaria anche di FCA (Fiat Chrysler Automobiles, sede legale ad Amsterdam e sede fiscale a Londra), Juventus FC, Ferrari, The Economist (famosissimo settimanale inglese).
Gli Elkann non sono editori puri. I loro business più importanti non sono i media, eppure i media gli occorrono. I giornali sono in crisi, crollano le vendite e molti giornalisti – anche loro, così come i lettori, vittime dei media moderni – vengono messi in cassa integrazione.
Eppure i giornali hanno ancora un potere: quello di influenzare il dibattito pubblico. Telegiornali e talk-show costruiscono le loro scalette sulle prime pagine dei giornali. Che siano notizie vere o false poco importa. Nei programmi di approfondimento politico molte domande si basano sulla rassegna stampa del giorno. E così “piazzare” un tema alternativo nel dibattito pubblico è sempre impresa ardua.
Qual è la differenza tra il gruppo Elkann del 2020 ed il gruppo Berlusconi degli anni ’90? É vero, Berlusconi aveva le televisioni (in regime di concessione pubblica e questo è sicuramente un aggravante). Ma oggi ci sono gli smartphone. Provate a sommare i follower sui social network di tutti i prodotti editoriali che fanno capo agli Elkann. Sono oltre 13 milioni. Anche molti di voi, magari senza saperlo, avete messo un like ad una pagina che di fatto appartiene alla EXOR, un gruppo finanziario con sede ad Amsterdam che sa trasformare un gruppo editoriale in un gruppo di potere. Esattamente quel che fece Berlusconi.
Il berlusconismo ha vinto anche se Berlusconi ha perso. La vittoria del berlusconismo si è consumata nei silenzi di chi un tempo si indignava per la Fininvest ma che adesso abbassa la testa davanti agli Elkann. La vittoria del berlusconismo si è consumata nella progressiva narcosi della pubblica opinione ad opera di un unico grande “giornalone” che vede nella monumentale concentrazione mediatica la sua ragion d’essere.
Il berlusconismo ha vinto con la sindrome di Arcore (cit. Giovanni Valentini, ex-direttore dell’Espresso) che ha colpito via via le vittime della mala-informazione convincendole ad innamorarsi dei sicari della libertà di stampa come succede ad alcuni prigionieri con i propri carcerieri. E così l’eccezione è diventata la regola.
Salvo rari e meritevoli casi, i principali gruppi editoriali italiani sono gruppi padronali che appartengono ad editori impuri i cui principali interessi economici e finanziari sono estranei all’editoria. Ed un tale accentramento deve essere proibito per legge.
Tuttavia le battaglie in Parlamento si possono combattere (vincerle è ancor più difficile) solo se la pubblica opinione pressa i parlamentari a portarle avanti. Ed oggi la pubblica opinione è distratta. Dall’infodemia, dal gossip politico e dalle infinite campagne sulla “fake-news” che cercano di far credere che il problema principale del sistema mediatico siano le balle.
Le balle, ahimè, ci sono sempre state. Una tale concentrazione di potere no. Capisci che l’establishment mediatico, e quindi politico-finanziario, sta vincendo quando si sente pronunciare più “fake-news” che “conflitto di interessi”. Capisci che l’establishment mediatico, e quindi politico-finanziario, sta vincendo quando chi ha il coraggio di prendere posizione è la solita, sparuta, minoranza.