D’Alema: qualche volta avrò sbagliato, ma da professionista

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di Vittorio Zincone

Sede romana della Fondazione ItalianiEuropei. È il giorno del trentacinquesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer. Chiedo un ricordo a Massimo D’Alema. Mi restituisce una citazione: «Vladirnir Putin ha detto: “Chi volesse ricostruire l’Unione Sovietica sarebbe un uomo senza cervello, ma chi non ne ha un rimpianto è un uomo senza cuore”. Io applico lo stesso discorso al Partito Comunista Italiano». D’Alema è stato giovanissimo Pioniere, segretario della Fgci, leader del Pds e unico premier della storia d’Italia cresciuto a Botteghe Oscure. Spiega: «La politica non può non avere una radice ideale, direi persino esistenziale, altrimenti diventa un mestiere come un altro». Segue condanna del filone di pensiero per cui i partiti sono la cancrena del Paese e quindi la democrazia non ne ha bisogno: «I partiti, come tutti i corpi intermedi, svolgono una funzione di mediazione fondamentale, servono a costruire un rapporto stabile con l’elettorato, formare le classi dirigenti e legare le istituzioni al popolo. Se spariscono i corpi intermedi la democrazia cede al sondaggio del momento e i consensi si fanno volatili».

Consensi volatili: il Pd nel 2014 era al 40% e alle ultime Politiche ha toccato il 17%, la Lega cinque anni fa era al 6% oggi ha raggiunto il 34%, il M5S nel 2018 era al 32% e ora è al 17%.

«C’è stata un’epoca in cui se un partito guadagnava l’1% si parlava di “grande vittoria”».

Le ultime Europee che assetto hanno fotografato?

«La cosiddetta “post-politica” dei Cinque Stelle è stata ridimensionata. Il Paese si riassesta su un bipolarismo destra-sinistra, ma zoppo. C’è uno squilibrio a favore della destra».

Lei nel 1994, da neo-segretario del Pds, propiziò il celebre Patto delle Sardine e convinse la Lega di Umberto Bossi a far cadere il primo governo Berlusconi. Oggi è ipotizzabile un nuovo ribaltone parlamentare con protagonisti Pd e M5S a scapito della Lega?

«No. Noi avevamo perso le elezioni, ma eravamo un partito».

Il Pd non è un partito?

«La nuova segreteria non ha il governo dei gruppi parlamentari. Non è nelle condizioni di prendere iniziative politiche così impegnative e spregiudicate. Nicola Zingaretti ha ereditato un partito diviso, ancora condizionato, e non in senso positivo, da chi lo ha preceduto».

Lei è uscito dal Pd nel 2017. È stato un errore?

«È stata un’iniziativa generosa che non ha avuto successo. Ci sono battaglie che devono essere fatte anche se non c’è possibilità di vittoria».

Voi di Articolo Uno rientrerete nel Pd?

«Sono favorevole a una nuova unità e a un rinnovamento del centrosinistra, ma sono un militante disciplinato. Farò quel che decideremo insieme ai miei compagni».

Bersani dice che il centrosinistra dovrebbe guardare alla linea spagnola di Pedro Sanchez.

«Sono d’accordo. Ma considero inutile e vecchio il dibattito se guardare a sinistra o al centro. Il problema è sanare la frattura tra la sinistra e il mondo del lavoro. La sinistra si è trovata disorientata di fronte a una globalizzazione che ha acuito le disuguaglianze».

Quando è successo lei aveva responsabilità di governo.

«Il blairísmo, che allora abbiamo frequentato con moderazione, negli anni Novanta aveva un senso. La crisi si è aperta in modo drammatico a partire dal 2007-2008. In alcuni Paesi la sinistra ha capito che doveva recuperare la sua ragione sociale, in Italia ci si è esibiti in un revival del blairismo fuori tempo massimo».

Sinistra, mondo operaio e blairismi. Carlo Calenda, europarlamentare del Pd, l’ha attaccata in tv sostenendo che il primo a flirtare con i poteri forti e a voler toccare l’articolo 18 fu lei.

«Basterebbe informarsi prima di parlare, anche per capire il senso di quel che fu fatto. L’effetto del blairismo fuori tempo massimo è stato che la destra ha potuto approfittare dello smarrimento dei ceti sociali più deboli».

La destra leghista…

«I reati diminuiscono, i flussi migratori si restringono, eppure il dibattito pubblico è dominato da una destra che invoca più sicurezza. E’ in corso un’operazione di camuffamento della realtà fatta alla maniera dei fascismi: i nazisti raccontavano che si stava male per colpa degli ebrei, la destra, oggi, dà la colpa agli immigrati».

Lei definì la Lega di Bossi «una costola della sinistra».

«È una delle tante scemenze messe in giro per poi dire che io considero la Lega di sinistra. Nel 1994 dissi al Manifesto che la Lega era una costola del movimento operaio. Lo affermai perché gli operai votavano Lega».

La Lega oggi.

«Il populismo di Salvini ha una connotazione razzista più intossicante del populismo del M5S. Sono i capi delle dittature che indossano le divise. In lui c’è uno scimmiottamento che cerca di far riemergere l’anima più torbida del popolo italiano».

D’Alema ogni tanto si ferma e spiega che lui ormai è lontano dalle bassezze del dibattito italiano: «Giro molto, viaggio. Mi occupo dei rapporti tra l’Europa e la Cina, di Donald Trump che non difende il modello occidentale e punta sullo slogan “America First”. Oggi la nozione stessa di Occidente è messa in discussione. E’ per questo che abbiamo bisogno dell’Europa. O l’Europa è unita o scompare, e con l’Europa scompaiono i nostri valori e i nostri interessi». Lo riporto alle beghe nostrane, quelle che lo riguardano più da vicino: c’è una vulgata che avvolge il nome di D’Alema, fatta di accuse di spregiudicatezza e di aneddoti su barche, scarpe, vigne.

Ogni volta che spunta il suo nome nel dibattito politico italiano una parte della sinistra bofonchia e storce il naso.

«Penso che abbiano concorso diversi motivi. L’abitudine sciocca di punzecchiare i giornalisti non ha aiutato la mia immagine. Ma più in profondità credo che contro di me abbiano operato il diffuso sentimento contrario alla politica e la forza di una tradizione anticomunista che, anche nella sinistra, ha sempre guardato con sospetto alla cultura togliattiana».

Togliattismi. La leggenda vuole che lei, a dieci anni, tenne un discorso davanti a Palmiro Togliatti.

«Portai il saluto dei pionieri del Pci al Congresso».

Ci sono due versioni su come Togliatti commentò la sua performance: “Se tanto mi dà tanto questo farà strada”, oppure “Questo non è un bambino, è un nano!”.

«Non ho idea di quale fu la sua reazione».

Nel 1975, divenne segretario della Fgci con Berlinguer leader del Pci.

«Parlavamo spesso: i giovani, il ’77. Nel 1980, dopo il disgelo tra il Partito comunista cinese e quello italiano, venne organizzata una missione di Berlinguer a Pechino. Lui mi mandò in esplorazione qualche mese prima con una delegazione della Fgci. E al mio rientro voleva racconti dettagliatissimi. Berlinguer aveva una incredibile curiosità del mondo».

Pochi mesi prima di morire la portò con sé in Russia al funerale del leader sovietico Yuri Andropov.

«A Mosca constatai quanto prestigio internazionale avesse pur non essendo mai stato al governo».

La sorprese vedere che alla camera ardente di Berlinguer intervenne anche Giorgio Almirante, segretario postfascista del Msi?

«Ricordo la scena: Almirante si staccò dalla sua scorta e si mise in fila con i militanti del Pci. Gian Carlo Pajetta gli andò incontro e lo prese sottobraccio. Parliamo di uomini che durante la Resistenza si erano sparati a vicenda. Allora c’era una forma di rispetto politico che oggi sembra non esserci più: l’idea era che anche se ci si combatteva si faceva parte della classe dirigente del Paese e si aveva una responsabilità nei confronti di tutti i cittadini».

La diffidenza a sinistra nei suoi confronti viene anche dall’essere sceso a patti con Berlusconi, quando era presidente della Commissione Bicamerale per le Riforme, nel 1997.

«Le regole si scrivono insieme. E quell’operazione avrebbe portato a un riconoscimento reciproco che avrebbe reso più stabile la Seconda Repubblica. Una delle responsabilità più gravi di Berlusconi è averla fatta fallire».

Nel 1990 lei andò a trovare Bettino Craxi nel suo camper alla conferenza programmatica del Psi di Rimini.

«Ci si scorda sempre di dire che con me c’era Walter Veltroni. E che ci mandò il segretario del Pci, Achille Occhetto».

Una volta ha detto: “Godo della fama di essere un buon tattico. È immeritata”.

«È vero, ho fatto degli errori e ne ho già pagato le conseguenze. Ma la strategia l’ho sempre scelta bene».

Qual è stato il suo errore tattico più maldestro?

«Considerando quello che è avvenuto dopo, oggi tendo ad essere indulgente con i miei errori. Almeno, e qui cito Paolo Conte, “era un mondo adulto e si sbagliava da professionisti”».