Dobbiamo parlare

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Cosa stiamo aspettando, di preciso, ad aprire una grande discussione che coinvolga tutto il centrosinistra italiano? Diciamo centrosinistra per capirci, ecco, per brevità, anche se il termine è poco amato. A maggior ragione adesso che c’è un quadro politico nuovo, e una scissione ormai in corso. Cosa aspetta il Pd, che di quest’area grande e forse vaga è il maggiore azionista, a convocarla? Mistero.

Perché attenzione: poi le cose possono precipitare, e le cose precipitano sempre, e non c’è più tempo. E si ripiega su soluzioni raffazzonate.

Ma, come dicevano in quel film, ce ne sono, di cose da discutere. Cosa è successo in questi anni? Non possiamo certo dire che sia andato tutto bene.
Per quel che ci riguarda, il cosa viene prima del chi. Quando dal Pd ce ne siamo andati noi, ormai anni fa, o almeno chi di noi ci stava e si era pure candidato al congresso raccogliendo quattrocentomila voti, non pochissimi si potrebbe dire, lo abbiamo fatto perché non potevamo più stare in un partito che portava avanti politiche che non condividevamo, peraltro stando al governo. E lo abbiamo fatto quando tutti gli altri erano d’accordissimo, e non era molto di moda o comodo dissentire.

Altri lo hanno fatto dopo, votando tutto quello che c’era da votare, ma il punto è: possiamo dirci che le cose non hanno funzionato? Che certo, ci sono delle responsabilità personali, e che sono molto diffuse, nessuno escluso, e che però soprattutto sono state le scelte, le politiche, il problema, e che di quelle più che di ogni altra cosa dovremmo parlare?

Possiamo procrastinare il momento in cui squaderniamo sul tavolo le nostre idee per il Paese e mettiamo in discussione le posizioni di tutti, comprese le convinzioni granitiche di chi ha avuto in mano le leve per poterle mettere in pratica? Perché gli italiani lo hanno già fatto, col loro voto, quindi non si capisce cosa stiamo aspettando noi.

Serve un confronto, quindi, un rimescolamento urgente. Oppure si può andare avanti così.

Si può continuare a dire che chi è critico sulla Tav non ha diritto di cittadinanza politica – salvo poi ripensamenti quando si tratta di far coalizioni locali che però non nascono da nessuna composizione, appunto, e che non sopravvivono al giorno dello spoglio. Si può continuare a sostenere che non c’è stata nessuna esagerazione nella flessibilità del mercato del lavoro, che il precariato senza diritti è un’opportunità. Si può continuare sulla strada della sostanziale privatizzazione della sanità pubblica, si possono costruire nuove autostrade e aeroporti inutili che devastano il territorio, che vengono pagati con soldi pubblici e portano vantaggi solo a pochi privati. Si può continuare a sostenere che in italia c’è un problema di sicurezza, che è legato all’immigrazione e quindi servono leggi speciali e accordi con la Libia. E si può fare tutto questo mentre si governa col m5S, che su alcuni di questi temi potrebbe essere tentato di cavalcarle, queste faccende.

Oppure ci si può mettere intorno a un tavolo e dire “ok, parliamo”. Nella prima ipotesi, ognuno si tiene le sue convinzioni, e forse solo quelle, perché l’esperienza recente ci dice già dove si va a parare. Nella seconda ci si infila in un processo che non sarà facile, non sarà veloce, e non sarà nemmeno divertente. Ma che forse porterà qualcosa di buono. In caso contrario, ci si risente alla prossima scissione.