E allora, viva, viva il debito!

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Il grido di dolore

Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! tuona Mario Draghi al “Financial Times” il 25 marzo scorso. Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! gli fa eco il 29 aprile scorso il governatore della Fed Jerome Powell. Ma come? Per circa quarant’anni essi e i loro predecessori ci hanno martellato sulla necessità inderogabile di tenere i conti pubblici in equilibrio! Allora era tutto uno scherzo? No, era semplicemente lotta di classe: il liberismo e il monetarismo degli ultimi quarant’anni è stato il volto feroce del dominio capitalista nel mondo.

Il ‘rigore’ dei conti è stato il totem ideologico da cui è partito un poderoso attacco per lo sfruttamento planetario e senza limiti dei subalterni; per la massiccia riduzione (spesso scomparsa) di diritti, salari, servizi sociali; per l’estrazione massiccia di plusvalore e per l’appropriazione capitalistica della massa dei profitti. Ora, al tempo della Pandemia, dello sconvolgimento della società capitalistica, serve il denaro pubblico, il denaro di chi paga le tasse (ben sappiamo chi è), per salvare il sistema. E non solo il denaro pubblico di ora, ma dei prossimi anni (almeno 12 a leggere il DEF governativo approvato nei giorni scorsi dalle Camere).

E allora, viva, viva il debito! Soldi e capitali pubblici subito! Lo dicono tutti: imprese, governi, istituzioni economiche nazionali e internazionali. In tanti gridano spaventati che la base produttiva e fiscale potrebbe saltare, la società entrare in dinamiche fuori controllo, la riproduzione capitalistica avviarsi verso una crisi ingovernabile. Per queste ragioni, gridano fra i molti Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, è ineludibile una rapida e mastodontica socializzazione delle perdite private.

Brevi considerazioni sul capitalismo monopolistico di Stato

Partendo dai processi reali che oggi vi tendono, vorrei parlarvi di proprietà e controllo pubblici della produzione e dei servizi. Manfredi Alberti (“il Manifesto” del 28 aprile), parlando di emergenza sanitaria, scrive che essa produce trasformazioni e pone problemi per certi versi comparabili a un’economia di guerra, “[…] come la gestione centralizzata di risorse reali e finanziarie e la rapida interruzione o riconversione di alcune produzioni” e offre “nuove opportunità per un ripensamento complessivo dell’assetto sociale ed economico”. E cita Lenin dello scritto (del settembre del 1917) “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” laddove egli scorgeva “nell’economia di guerra, e in particolare nel capitalismo monopolistico di Stato tedesco, i germi del socialismo e della pianificazione”.

I tema merita una breve digressione e un approfondimento che possono aiutarci a comprendere fenomeni economici e politici che in queste settimane si stanno dipanando dinanzi ai nostri occhi. Engels scriveva nell’“Antiduring”: “Né la trasformazione in società anonima, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive […]. Lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico […]. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale” (in Marx – Engels, “Opere scelte”, Editori Riuniti 1966, p. 1031).

Questa lucida visione fu sviluppata da Lenin dopo che il processo di concentrazione era andato sviluppandosi e dopo che l’esperienza della grande guerra mondiale aveva costretto lo stato capitalista e il suo ceto dirigente a organizzare e coordinare tutta l’attività produttiva. Lenin vede la “relativa novità” e importanza del fenomeno che denomina per la prima volta “capitalismo monopolistico di Stato” e collega al fenomeno della intersezione stabile del capitale finanziario con lo Stato, cioè col suo aspetto sovrastrutturale e politico, e rileva la creazione di strumenti organizzativi per subordinare tutta l’economia al capitale monopolistico, specie di fronte a situazioni di speciale gravità. Nello scritto “Sull’imposta in natura” (“Opere scelte”, Editori Riuniti, 1966, p. 1539), a proposito della Germania, scrive di una “organizzazione sistematica sottoposta all’imperialismo della borghesia” e riporta a conferma la nota frase dello scritto del 1917: “Il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo”.

Da elemento di organizzazione per la subordinazione di tutta l’economia agli interessi del capitale finanziario, soprattutto in situazioni di gravità sistemica (l’“organizzazione sistematica” di cui parlava Lenin), il capitalismo monopolistico di Stato, nell’instabilità della crisi dei successivi anni, muta la sua natura e diviene parte necessaria della struttura capitalistica, elemento indispensabile per conservare il modo sociale di produzione vigente e “impedirne il disastro a causa delle [sue] crescenti contraddizioni” (A. Pesenti, “Manuale di Economia politica”, Editori Riuniti, 1970, vol. II, p. 108). Il dominio incontrastato del liberismo e del monetarismo nell’ultimo quarantennio a causa dei mutamenti, dopo il trentennio di espansione post-bellica, nel processo di accumulazione capitalistica, ha ridotto quantitativamente, mediante le massicce privatizzazioni degli anni Novanta e successivi, l’importanza del capitalismo di Stato, ma non ne ha eliminato la presenza e la funzione nella struttura economica. Ora, nella gravissima situazione generata dagli effetti economici della pandemia, ne è invocato da varie parti una sorta di ritorno, in primis per la salvezza del sistema, in secundis perché lo Stato possa contribuire, durante e dopo la fase acuta della crisi, alla riorganizzazione su basi nuove del capitale complessivo.

Per quanto riguarda le forme e le azioni specifiche nel capitalismo monopolistico di Stato, se ne possono distinguere due categorie principali: l’intervento indiretto con varie misure di politica economica, e l’intervento diretto mediante l’acquisizione da parte dello Stato o altro soggetto pubblico di partecipazioni o della proprietà e della gestione di servizi o di imprese produttive.

Gli interventi esterni o indiretti sul processo di produzione quali dazioni di denaro o capitale a fondo perduto, garanzie per il credito bancario o all’export, incentivi, indennizzi, sussidi di vario genere, assecondano e stimolano il processo di riproduzione capitalistico del capitale sociale nel suo insieme, cioè non solo del capitale monopolistico, ma di quello non monopolistico e delle piccole e medie imprese industriali e artigiane. L’azione è quella di ripristino e salvaguardia del profitto di tutto il capitale impiegato.

Più significativo è l’intervento diretto, cioè il capitalismo di Stato vero e proprio: lo Stato (o un altro soggetto pubblico) assume la diretta proprietà e gestione dei servizi, o la diretta produzione di merci. In tal caso, lo Stato diventa imprenditore, imprenditore “capitalista”. La formazione del capitalismo di Stato è un processo contraddittorio. Vi può essere alla base una lotta popolare, come è accaduto in Italia e altrove per le ‘nazionalizzazioni’, oppure vi può essere l’esigenza del capitale dominante di abbandonare settori in crisi permanente o assai duratura. In quest’ultimo caso si tratta di ‘salvataggi’, che con l’intervento e l’acquisizione pubblica consentono l’incremento del saggio di profitto nei settori che rimangono al capitale privato. In Italia l’esempio storico più importante di ‘salvataggio’ è stato la nascita dell’IRI.

Come è noto, durante la grande crisi degli anni Trenta, le più importanti banche erano in una situazione prefallimentare avendo in portafoglio ampie partecipazioni in numerose aziende in crisi. Lo Stato acquisì con denaro pubblico il controllo delle banche e quindi del loro portafoglio. Le partecipazioni acquistate vennero conferite in una holding statale, appunto l’IRI. Questa proprietà statale nacque allora nel momento in cui ciò parve conveniente al capitale monopolistico (e non-monopolistico) privato per sanare le perdite e porle a carico di tutta la collettività, salvo chiederne, a risanamento avvenuto, la privatizzazione parziale o totale.

Ma la contraddittorietà del processo del capitalismo monopolistico di Stato si manifesta anche ‘a valle’, nei suoi effetti. Come scriveva Antonio Pesenti nell’opera sopra citata, se lo Stato entra e gestisce settori chiave (energia, reti, telecomunicazioni, infrastrutture) può agire anche in contrasto col capitalismo monopolistico privato, può non perseguire la legge della massimizzazione dei profitti e del massimo sfruttamento, può fissare livelli dei prezzi non monopolistici, cioè non basati sui costi dell’impresa marginale, può fare investimenti di lungo periodo con redditività nulla o diluita nel tempo. Possibilità non significa però attuazione/volontà. Quest’ultima dipende dai rapporti di forza tra le classi, dai rapporti di forza fra subalterni e dominanti. E i rapporti di forza possono mutare con la presa di coscienza, la mobilitazione e la lotta delle masse popolari.

Negli anni Cinquanta le imprese a partecipazione statale si staccarono dalla Confindustria e costituirono una loro associazione, l’Intersind. I contratti collettivi stipulati con l’Intersind contenevano normalmente clausole migliori per i lavoratori. Inoltre la firma dei contratti con l’Intersind che solitamente avveniva prima, costringeva Confindustria ad adeguarsi. Per gli operai questo significava migliori condizioni di lavoro, minore subalternità in fabbrica.

Il capitalismo monopolistico di Stato, inteso quale proprietà pubblica di imprese produttive, oggettivamente presenta contraddizioni nelle quali è possibile agire per assicurare uno sviluppo democratico, e in prospettiva socialista, del movimento economico-sociale e politico della società. Invece, l’intervento indiretto dello Stato non può mutare in alcun modo il tipo di sviluppo e anzi sarà un sostegno all’accumulazione. In senso più ampio, guardando alla società nel suo complesso, la proprietà e gestione pubblica di una parte rilevante dell’economia può portare, attraverso una programmazione vincolante e non solo indicativa, ad una maggiore capacità di direzione e di indirizzo dei processi economici e sociali verso un’ampia diffusione dei diritti fuori e dentro i luoghi di lavoro, verso un equilibrio tra riproduzione sociale e conservazione dell’ambiente naturale, verso un uso non esclusivamente capitalistico delle grandi innovazioni scientifiche e tecnologiche, verso la modifica delle grandi disparità d’area (questione meridionale) e contro la frammentazione e l’emarginazione di ampi strati popolari. Non va poi dimenticato l’aspetto del controllo parlamentare (e quindi teoricamente democratico) sull’attività economica della parte pubblica (con la prassi, a partire dagli anni Cinquanta, delle relazioni in Aula del ministro delle Partecipazioni statali).

Infine è importante vedere nel capitalismo di Stato una realtà in contrasto con il liberismo e il monetarismo imperanti nell’ultimo quarantennio. Di contro, in una realtà di scarsa coscienza di classe, di debole resistenza dei subalterni, di modestia delle loro capacità di mobilizzazione e di lotta, di concentrazione su obiettivi economici, sacrosanti finché si vuole, ma troppo difensivi, assisteremo al rafforzamento dell’altro polo della contraddizione del capitalismo di Stato, quello del capitale finanziario: allora sovvenzioni indiscriminate alle imprese, senza contropartita, servizi e settori in perdita accollati a tutta la collettività con aumento del saggio di profitto del settore privato, onerose capitalizzazioni di medie e grandi aziende senza incidere sui loro progetti industriali, sulle condizioni di lavoro dei dipendenti, sugli effetti ambientalmente sostenibili o meno della attività d’impresa. È bene rammentare che da decenni molte di queste iniziative di sostegno all’accumulazione sono svolte dall’UE.

In conclusione il capitalismo monopolistico di Stato, che è riemerso in questa crisi e che tende ad una espansione su larga scala, se lasciato nelle mani dei gruppi dell’oligarchia finanziaria dominante, funzionando come elemento strutturale dell’ordinamento capitalistico, può divenire un potente fattore di accumulazione e di impoverimento delle masse popolari. È bene non dimenticare che la teoria keynesiana è, tra le altre cose, anche la presa di coscienza di un capitalismo di Stato volto a conservare e stabilizzare il sistema capitalistico.

Abbiamo visto che il capitalismo monopolistico di stato è una contraddizione. Anche se storicamente nato per le esigenze di lungo periodo del capitale finanziario, può essere ‘cavalcato’, ma mai pacificamente, dai ceti subalterni, purché siano ben consci che non si tratta di un loro strumento ma di un mezzo che, sotto l’incalzare delle lotte sociali e politiche, può divenire un obiettivo di medio periodo, una casamatta da conquistare e da dirigere in modo diverso ma anche da superare. Per procedere ben oltre, verso la proprietà collettiva non capitalista e verso una nuova pianificazione autenticamente democratica e popolare. Cioè verso il socialismo.

Capitalismo monopolistico di Stato e pandemia

Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo (“Il Sole – 24 Ore” del 25 aprile) non ha dubbi: “Le aziende hanno bisogno di finanziamenti a fondo perduto. […] Non bastano aiuti che aumentano i debiti [prestiti bancari con garanzia pubblica], perché i debiti vanno restituiti” e poi, aggiunge, bisogna sbloccare subito gli investimenti pubblici. Analoga è la posizione del presidente di Confindustria Carlo Bonomi che, commentando le anticipazioni sul decreto legge ex-Aprile ad oggi ancora in gestazione e sugli oltre 70 miliardi (dei 155 di saldo da finanziare) destinati agli interventi pubblici sulle imprese, perentoriamente dichiara che è “inaccettabile avviare una campagna di nazionalizzazioni dopo aver costretto le imprese a indebitarsi” (“Il Sole – 24 Ore” del 3 maggio). Bonomi raccoglie le preoccupazioni (vedremo assolutamente infondate) delle aziende che rappresenta e spara in anticipo.

In questi due interventi emblematici (e in tante altre voci del ‘fondo perduto’), osserviamo che c’è la richiesta pura e semplice (e urgente) di interventi pubblici esterni e incondizionati a favore del sistema delle imprese. Lo Stato, secondo questi signori, deve essere il cash-dispenser del sistema in crisi. Nel provvedimento non ancora varato dal Consiglio dei ministri (per contrasti interni tra i partiti di governo e in attesa delle modifiche al ‘Quadro Temporaneo’ UE sugli aiuti di Stato), viene delineata una struttura a quattro livelli delle erogazioni di denaro pubblico alle imprese.

Al primo vi è l’operazione ‘patrimonio dedicato’ con 50 miliardi destinati alla Cassa depositi e prestiti per gli interventi di ‘rafforzamento patrimoniale’ riservato alle imprese sopra i 50 milioni di fatturato. Il ministro dell’economia Gualtieri, in audizione alle commissioni Finanze e Attività produttive, ha informato i parlamentari che si passerà per un sistema di interventi articolato, cioè per “ristrutturazioni, ricapitalizzazioni e anche ingresso nel capitale”. Quindi, dazioni di denaro pubblico con o senza partecipazioni nel capitale.

In questo e negli altri interventi del genere il ministro rassicura che il “sostegno molto ambizioso” non sarà animato “da alcun intento di nazionalizzazione o di controllo”. Pertanto la provvisoria presenza dello Stato nel capitale delle aziende in crisi (considerate, secondo il mantra di queste settimane, a rischio di scalate e quindi meritevoli di ‘tutela’ pubblica) non significa una “partecipazione alla loro governance”, come titola con soddisfazione Il Sole – 24 Ore del 5 maggio. Fa da controcanto a Gualtieri, con loquacità, il responsabile economico del partito di Renzi, Luigi Marattin: “Credo ci siano i presupposti affinché l’intervento sulle grandi aziende [come detto, sopra i 50 milioni di fatturato] possa essere disegnato bene, tramite Cdp, se – come credo – prevarrà la logica del supporto finanziario temporaneo e non antiquate pulsioni stataliste” (“Il Sole -24 Ore” del 5 maggio).

Al secondo livello, per le aziende da 5 a 50 milioni di fatturato, continua Gualtieri, ci sarebbe il meccanismo “pari passu”, cioè lo Stato affiancherebbe le ricapitalizzazioni delle imprese con una somma pari a quella dei soci privati e l’intervento, “a certe condizioni”, diventerebbe a fondo perduto. Al riguardo Marattin è ancora più tranquillizzante: “In quel segmento [aziende tra 5 e 50 milioni] c’è il cuore del tessuto produttivo italiano […]. Personalmente sono un pò perplesso da una risposta dello Stato che inizia con ‘prima di tutto apri il portafoglio e ricapitalizza la tua impresa, poi vediamo’, perché presuppone che gli imprenditori abbiano uno scrigno segreto dove tengono nascosti i soldi”. Allora, secondo Marattin, bisogna dare il denaro pubblico a fondo perduto e senza condizioni o, ancor meglio e da subito, “tagliare le tasse. Non semplicemente rinviarle […], dicendo alle imprese che per il 2020 una parte del carico fiscale sparisce per sempre. […] È stato proprio Draghi a dire subito che in questa fase il ruolo delle risorse pubbliche è sostituire il reddito privato” (Il Sole – 24 Ore del 5 maggio).

Il terzo livello di ‘soccorso’ (aziende sotto i 5 milioni di fatturato) è sicuramente a fondo perduto, ma sul punto è in corso uno scontro tra Cinque Stelle, Pd e Italia Viva. Il quarto livello, infine, destinato alle imprese più piccole, passa dalle Regioni e prevede erogazioni fino a 800 mila euro.

In tutta questa vicenda sembra silente (o non si percepisce) la posizione di LeU, mentre fragoroso appare il silenzio delle organizzazioni sindacali il cui massimo risultato conseguibile appare loro di essere convocate e informate dal governo. Con qualche aspetto ancora da definire, ma le forze politiche di governo sembrano d’accordo con questa impostazione. Un pò diversa e velleitaria appariva in un primo momento la posizione di Patuanelli, Cinque Stelle, ministro dello Sviluppo economico. Egli enfatizzava il ruolo di Cdp (“tassello di una rinascita industriale per ricreare dei grandi campioni europei”) nei settori delle telecomunicazioni, dell’energia, della cantieristica, della siderurgia, dell’automotive. “Penso al progetto Open Fiber e al progetto di fusione tra Snam e Terna [le società che gestiscono rispettivamente la rete di distribuzione del gas e la rete elettrica], che potrebbe essere facilitato dai nuovi interventi in equity [partecipazioni azionarie] della Cdp”. E ipotizzando un piano per la siderurgia di Stato e passando per Alitalia, alla domanda se la crisi sia un alibi per lo Stato padrone risponde che “il mercato unico [?] europeo è un valore […], ma dobbiamo poter accompagnare l’industria verso la creazione di campioni che poi potranno competere da soli. Sarà a quel punto che lo Stato dovrà fare un passo indietro”.

Quindi ancora una volta erogazione, rafforzamento patrimoniale e competitivo e riconsegna al settore privato. Si tratta di una posizione sostanzialmente in linea con quelle precedenti, con in più l’attribuzione temporanea alla collettività di settori industriali in crisi duratura e da tempo non profittevoli nei quali, nella situazione attuale, il capitalismo privato non intende entrare stabilmente e con finalità industriali (l’intento meramente speculativo di alcuni recenti passaggi privati in Ilva e Alitalia ne è la conferma). Nulla di nuovo sotto il sole. La linea di Patuanelli si muove nel campo degli interventi in favore del capitale finanziario: il capitalismo monopolistico di Stato opera nella sua funzione propria di sostegno all’accumulazione capitalistica.

Emblematica del clima di rinnovato interesse per il capitalismo di Stato è la chiamata di Mariana Mazzucato come consulente del governo per la ‘ricostruzione’ industriale e come membro del gruppo dei ’17 esperti’ della cosiddetta ‘Fase 2’ della pandemia. La Mazzucato, docente a Londra e autrice di vari libri sul ruolo dello Stato nell’economia, è stata tacciata di ‘marxismo’ e di ‘statalismo’, ma ritengo non meriti tali epiteti.

Vediamo alcune sue affermazioni contenute in due interviste rilasciate i giorni scorsi a “la Repubblica” e a “Il Sole – 24 Ore”: “Lo Stato non può limitarsi ad aggiustare i danni economici provocati dall’epidemia”. Va potenziata, ella sostiene, la sua capacità di dare direzionalità e promuovere il coordinamento degli investimenti nelle filiere produttive strategiche. Questa politica di indirizzo dovrebbe essere destinata alla ‘green economy’, al superamento del divario Nord – Sud, al superamento del divario digitale tra gli individui e tra le imprese. Basta con “sussidi e incentivi a pioggia”. È necessario un ruolo imprenditoriale dello Stato in simbiosi con le imprese private. È importante il ruolo di Cdp. “Avere un capitale paziente, che stia nelle imprese e non spinga per risultati immediati […] è cruciale per far crescere un paese e limitare la finanziarizzazione del sistema produttivo” (“la Repubblica” del 27 aprile).

L’impressione che ne ricavo è quella di un approccio ‘illuminato’ al capitalismo di Stato. Alcune affermazioni della Mazzucato possono essere in astratto condivisibili e non escluderei un avvicinamento tattico con soggetti politici o sociali che se ne facessero portatori. Ma, per come si presentano nella situazione attuale, sembrano petizioni di principio rivolte a un ‘governo illuminato’ collocato nell’iperuranio, petizioni che non parlano di assetti proprietari stabili (al pari di Patuanelli nell’intervista) e che, oltre a non esprimere indicazione alcuna sui soggetti sociali e politici di riferimento, non manifestano altra finalità se non una ideale, armoniosa, pacifica collaborazione (esistente forse solo nella testa dell’autrice) tra uno stato che si vuole imprenditore pubblico (magari con obiettivi astrattamente progressivi) e l’oligarchia finanziaria privata, attratta dal profitto, e dal sostegno offerto dal capitalismo monopolistico di Stato.

Non ci discostiamo molto dai vagheggiamenti del ministro Patuanelli che in apparenza tanto stridevano con le decisioni che vengono assunte in queste ore dal governo e quindi da Patuanelli stesso.

Conclusioni

Con tutti i suoi limiti il mio è stato un tentativo di affrontare la questione del capitalismo monopolistico di Stato in un’ottica di classe. Spero di esserci almeno in parte riuscito. Mi rendo conto che il tema affrontato può esporre chi lo fa al facile, sommario, ideologico anatema di ‘riformismo’, ma accetto il rischio e, indipendentemente dalla sua fondatezza, anche l’accusa, se questo può servire a far crescere il dibattito nella sinistra e così a far crescere anche me.                         fonte