È il 22 settembre 2017, al Cairo, Egitto

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Sarah Hijazi, attivista Lgbt allora 27enne, assieme a un amico sventola la bandiera arcobaleno durante un concerto dei Machrou Laila come estremo atto di sfida a un regime tra i più oscurantisti, omofobi e sanguinari al mondo.

Ancora non sa, Sarah, che quel gesto così potente e liberatorio sarà anche la sua condanna a morte.

In breve la sua storia finisce sui media di tutto il Paese e alcuni dei leader religiosi chiedono per lei punizioni esemplari. L’accusa: “Vuole diffondere l’omosessualità nel Paese.”

Sarah viene arrestata dalla polizia e rinchiusa in un carcere maschile, dove subisce ogni genere di violenza, umiliazione e tortura, fisica e psicologica.

Infine la liberazione, grazie anche una lunga campagna di pressione internazionale, l’asilo in Canada, dove Sarah riprende a lottare a distanza per i diritti LGBT nel proprio Paese.

Lei, colta, intellettuale, studiosa dei diritti, dichiaratamente “gay e femminista”, come si definisce su Instagram, decide che non smetterà di combattere.

Solo che il ricordo degli abusi subiti è troppo grande e doloroso, l’ha scavata dentro. Talmente intollerabile, che l’unico modo per sfuggirne è togliersi la vita, poche ore fa, lasciando dietro di sé una lettera che sta commuovendo il mondo intero. Dice così:

“Ai miei fratelli, ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici, l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo, sei stato davvero crudele, ma io ti perdono”.

Un altro dolore straziante che si somma ad altro dolore. Altro giovane sangue che si deposita su altro sangue innocente, in quella centrifuga di vite e diritti calpestati che è oggi l’Egitto, in cui Patrick Zaki è ancora prigioniero e da cui Giulio Regeni non è più tornato.

No, Sarah, non hai fallito. Non una goccia del tuo coraggio e del tuo dolore andrà perduto.

Che grande donna, Sarah.
Aveva 30 anni. Solo 30 anni.

Lorenzo Tosa