Ecco perché non dovremmo preoccuparci del glifosate

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Da cancerogeno a non cancerogeno: la storia del glifosate, il diserbante ideato da Monsanto e passato a Bayer nel momento dell’acquisizione dell’azienda dal colosso tedesco, è piena di colpi di scena ma potrebbe essere arrivata a conclusione. Creato nel 1974 dall’azienda americana Monsanto, è stato usato in maniera massiccia in tutto il mondo, libero dal brevetto dal 2001 è stato al centro negli ultimi anni di complesse vicende giudiziarie e di numerosissime ricerche scientifiche, che finalmente sembrano arrivate a conclusione. Ma nonostante le evidenze, c’è ancora una larga fetta di agricoltori e opinione pubblica che dubitano della veridicità delle ricerche e che hanno aperto pesanti contenziosi con la Bayer, attuale proprietaria di Roundup, il prodotto incriminato a base di glifosate che è già costato alla società tracolli in borsa e esborsi milionari.

Nel 2015 la Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha inserito il glifosate nella lista delle sostanze «Probabilmente cancerogene», gruppo 2A. Ma alla fine dello stesso anno l’Efsa, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare, dichiara che invece il glifosate non sarebbe genotossico (non danneggerebbe il DNA) e non sarebbe cancerogeno. Nei due anni successivi il gruppo Fao/Oms sui pesticidi e l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) confermano la non cancerogenità della sostanza, seguite da altre agenzie sanitarie di Canada, Australia, Giappone, Nuova Zelanda.

Nel 2017 una inchiesta del Guardian rende noto che molti dati presenti nella ricerca dell’Efsa che assolve il prodotto sono state copiate dalla ricerca commissionata dall’azienda che lo produce. Ad agosto 2019 Il Sole 24 Ore dà conto di una perdita del 31% del valore dell’azienda nel corso dell’anno precedente, circa 30 miliardi di capitalizzazione, poco sopra i 68. La colpa sarebbe delle 18mila cause intentate negli Stati Uniti dagli agricoltori che hanno usato il diserbante.

Ma è di poche settimane fa l’ulteriore assoluzione del prodotto da parte dell’Epa (Environmental protection agency), l’agenzia statunitense per la tutela dell’ambiente, che conferma il parere dell’Efsa europea e di numerose altre istituzioni scientifiche: gli studi non hanno identificato alcun rischio per la salute umana derivante dall’esposizione al glifosate e ha stabilito che non vi sono rischi alimentari. Nonostante le rassicurazioni, il tanto temuto diserbante è diventato parte del dibattito politico e, per esempio, il governatore veneto Luca Zaia lo demonizza, sulla scia delle troppe false notizie che hanno fatto credere all’opinione pubblica che fosse un demone da combattere, pericoloso per la salute. L’unico tema aperto rimane sulle api: sarebbe stata individuata una tossicità modesta su animaletti singoli anche se non ci sarebbe nessun effetto rilevabile a livello di famiglia d’alveare.

Ma dobbiamo temerlo? Ci risponde Angelo Moretto, Direttore del Centro Internazionale per gli Antiparassitari e la Prevenzione Sanitaria e Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche dell’Università degli Studi di Milano: «Fra tutte le molecole utilizzate nei prodotti fitosanitari, il glifosate è certamente fra i meno dotati di tossicità per i vertebrati, compreso l’uomo. Questo è dovuto al fatto che la molecola bersaglio dell’effetto tossico sulle erbe non è presente nei vertebrati né i vertebrati presentano altri bersagli per la tossicità del glifosate. Inoltre, il glifosate è scarsamente assorbito: nei ratti si stima che all’incirca 80% del glifosate ingerito sia eliminato direttamente con le feci senza entrare in circolo. La piccola frazione assorbita, poi, reagisce ben poco con l’organismo perché è rapidamente eliminata con le urine senza essere metabolizzata. Infatti, ben oltre il 95% è eliminato come glifosate immodificato. È, quindi, comprensibile che negli studi fatti sugli animali si vedano pochissimi effetti a dosi molto alte; per vedere qualche modesto effetto si sono dovute somministrare diete che contenevano il 2, 3, 5% di glifosate (i residui, quando presenti, sono al massimo lo 0,00003%). Per questo il limite, detto dose giornaliera accettabile, per il glifosate è fra i più elevati per questo tipo di prodotti ed è fissato in 1 mg/kg (secondo FAO/OMS) o 0.5 mg/kg (secondo EFSA) di peso corporeo (questa piccola differenza fra i due enti è dovuta a una interpretazione dei dati più prudenziale da parte di EFSA).

In ogni caso, l’assunzione di glifosate attraverso gli alimenti e l’acqua potabile è stata stimata essere l’1% o meno del limite, che già è fissato con criteri molto prudenziali. A proposito dell’acqua potabile, è utile ricordare che il limite in vigore in Unione Europea (0,1 microgrammi/litro, cioè circa un decimo di miliardesimo di chilo) è un generico limite di qualità, ma non è basato sugli effetti tossici come la DGA. Se così fosse, il limite in acqua sarebbe circa 1500 microgrammi/litro. Sulla base di queste considerazioni, è evidente che non dobbiamo temere la presenza di glifosate nella nostra dieta e nell’acqua che beviamo».

Quanto ne rimane sugli alimenti una volta raccolti e quindi quanto ne ingeriamo? Donatello Sandroni, giornalista con Dottorato di ricerca in Ecotossicologia e autore di uno studio approfondito sull’argomento ci rassicura anche su questo punto. «Glifosate si assume prevalentemente con i prodotti derivati da alimenti “secchi”, come i derivati del grano (pasta, pane etc.) oppure i legumi secchi. Nei Paesi a clima freddo questi sono talvolta trattati in pre-raccolta con glifosate a basse dosi per accelerarne la perdita finale di umidità. In Canada, per dire, devono trattare il grano con glifosate perché trebbiano a fine settembre, quando talvolta inizia a nevicare. Usando basse dosi dell’erbicida, invece, la granella secca velocemente e permette trebbiature anticipate, a tutto vantaggio anche della preservazione del prodotto dalle micotossine che si moltiplicano soprattutto nelle fasi finali della coltura in campo. Anche prendendo per buone le molteplici analisi effettuate da più soggetti su diversi marchi di pasta, si dovrebbero mangiare alcuni quintali di pasta al giorno solo per raggiungere la dose ritenuta sicura per l’uomo. Cioè quella fissata pari a un centesimo della dose risultata già di per sé innocua su cavie in laboratorio. Quando un residuo risulta cioè nei limiti di legge, significa che è assolutamente sicuro per l’uomo. Infine, da alcuni studi effettuati negli Stati Uniti, come il Rancho Bernardo Study (analisi delle urine su circa mille individui monitorati per 23 anni), si può ricavare una dose annua assunta di glifosate che arriva a poco più di un milligrammo nel peggiore dei casi. Circa 25 milioni di volte al di sotto della dose alla quale si sono ravvisati i tumori nelle cavie alle percentuali sopra indicate. Direi che il margine di confidenza è astronomico».

Nonostante le rassicurazioni, è diventato il simbolo del male in agricoltura. A provare a spiegarci perché è ancora Moretto. «Certamente, l’avversione al glifosate ha avuto un’accelerazione nel 2015 quando Iarc lo ha dichiarato probabile cancerogeno. Da notare a questo proposito che tutte le agenzie governative (quasi 2 decine) che l’hanno valutato sono giunte alla conclusione che non vi sono preoccupazioni da questo punto di vista, cioè non è cancerogeno. È, però, importante sottolineare che Iarc fa solo classificazione rispondendo alla semplicistica domanda: «L’agente in questione può causare/causa il cancro nell’uomo?». Le attuali conoscenza sulla biologia, in generale, e sulla biologia del cancro in particolare, portano a ritenere inutile, se non insensata (scientificamente), questa domanda, perché è monca. Manca la descrizione delle condizioni di esposizione: a quali dosi e per quanto tempo di esposizione può causare il cancro? L’amianto è come la carne lavorata (entrambe classificate come cancerogene certe da IARC)? Oppure è importante valutare l’esposizione? Se non si valuta la potenza e la si compara con l’esposizione umana, se non si fa quindi una valutazione quantitativa del rischio, non si potrà procedere alla gestione appropriata dell’agente. Se invece lo si fa, allora si bandisce l’amianto e si raccomanda di non eccedere con la carne lavorata.”

I dubbi, anche immotivati, comunque permangono: non sarebbe più semplice smettere di utilizzarlo? È Sandroni ad incalzare: «Il dubbio è saggio solo se alimenta la voglia di sapere e quindi di capire. Se invece è solo il trampolino di lancio per alimentare paure in modo subdolo, esso va respinto con decisione. E quelli su glifosate sono a pieno titolo dubbi alimentati strumentalmente da chi nell’allarmismo ha trovato il proprio business d’elezione. Nel caso di glifosate, peraltro, esso non deve essere valutato per la “salubrità”, visto che deve fare il proprio lavoro in campo, come erbicida, concorrendo a produrre il cibo che noi tutti mangiamo. Deve essere semmai valutato nell’ambito della sicurezza e in tal caso non v’è autorità mondiale di regolamentazione che non lo reputi sicuro.

Se si valutasse per esempio l’alcol secondo i criteri con i quali vengono approvati o respinti gli agrofarmaci a livello regolatorio, nessuna bevanda alcolica verrebbe mai autorizzata per usi fitosanitari. Le frasi H (hazard) che grappe, vini e birre riceverebbero in etichetta spazierebbero dal “sicuramente cancerogeno” al “mutageno”, dal “teratogeno” (effetto sui feti) all’inibizione della fertilità, fino ai danni per gli organi interni a seguito di esposizioni di lungo periodo. L’alcol è cioè enormemente più rischioso di glifosate e per giunta in un solo bicchiere di vino ce n’è almeno venti grammi. Per assumere la stessa quantità di glifosate dovremmo campare fra i 10mila e i 20mila anni. Ben si comprenderà quindi come sia stata storpiata la percezione del rischio a livello popolare. Ciò non toglie che io personalmente con una buona bistecca (Gruppo 2A), preferisca un buon rosso (Gruppo 1 per l’alcol), anziché un bicchiere di glifosate. Del resto, credo che nessuno preferirebbe bere candeggina, ammoniaca, brillantanti per la lavatrice o anti-calcare. Giusto per dare una risposta a tutti gli sciocchi che di fronte alle su esposte considerazioni l’unica cosa che sanno ribattere è «E allora bevitelo».

E sul tema degli studi copiati da ricerche fatte dalle stesse aziende proprietarie? È sempre Moretto a spiegare come avvengono questi studi: «Un falso mito difficile da scalfire è quello che i prodotti fitosanitari non siano studiati e che siano immessi nel mercato senza una accurata valutazione preventiva. Invece, è bene sapere che per essere approvati questi prodotti devono essere sottoposti a numerosi studi di tossicologia, ecotossicologia, destino ambientale e livelli di residui negli alimenti. Per limitarci alla tossicologia devono essere condotti studi di tossicità acuta (almeno su topo e ratto), tossicità a breve termine (almeno su topo, ratto e cane), a lungo termine e cancerogenesi (almeno topo e ratto), tossicità riproduttiva (ratto, e talora topo), tossicità dello sviluppo (teratogenesi: almeno ratto e coniglio), genotossicità in vitro e in vivo. A questi si aggiungono, se ritenuto necessario, studi più specifici quali quelli di neurotossicità, immunotossicità, etc. Questi studi devono essere presentati agli enti governativi, quali la statunitense EPA, o sovranazionali, quali EFSA (e EChA solo per la parte di classificazione), che li valutano al fine di autorizzare o meno nei loro paesi di competenza, e a quali condizioni, l’uso del prodotto fitosanitario.

Sono decine di migliaia di pagine che sono attentamente scrutinate dagli enti governativi; non a caso per giungere all’approvazione di un prodotto servono 5-7 anni fra tempo di conduzione degli studi e loro valutazioni. Da alcune parti si lamenta che questi studi sono condotti dalle aziende produttrici. Si tenga presente che, a differenza degli studi pubblicati nelle riviste scientifiche, ai valutatori è fornito lo studio completo con tutti i dati grezzi, relativi a ogni singolo animale esposto alla sostanza da valutare e ogni parametro misurato ripetutamente durante il periodo di trattamento. Inoltre, questi studi sono condotti secondo protocolli concordati internazionalmente, in laboratori certificati per buona pratica di laboratorio (Good Laboratory Practice, GLP) e con sistema di sicurezza della qualità certificato (Quality Assurance, QA).

Gli studi pubblicati su riviste scientifiche, invece, forniscono solo dati sintetici, ovvero medie, deviazioni standard, o altri parametri statistici sintetici che gli autori ritengono appropriati. Tali studi sono infatti eseguiti in laboratori di ricerca e per scopi di ricerca, quindi seguono protocolli che non sempre sono appropriati allo scopo di derivare dei limiti di esposizione. Inoltre, proprio perché non sono disponibili i dati originali grezzi, non sempre è possibile valutare adeguatamente la qualità dello studio e l’appropriatezza dell’analisi statistica, né si dispone dell’intero andamento dello studio animale per animale seguito durante il periodo di esposizione alla sostanza da valutare. In conclusione, non è vero che i prodotti fitosanitari sono poco studiati, non è vero che i dati prodotti dall’industria sono poco affidabili, visto che sono minuziosamente verificati, non è vero che i residui negli alimenti e nell’acqua derivanti dall’uso corretto dei prodotti fitosanitari pongono rischi per la salute del consumatore».

Lasciamo la chiusura a Deborah Piovan, imprenditrice agricola e membro di SeTA, Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura, / gruppo che si propone come obiettivo di sviluppare una riflessione originale e a tutto campo sul tema dell’innovazione in agricoltura. “Ci preoccupa soprattutto la mancanza di basi scientifiche su cui poggia l’accanimento contro il glifosato. Saremmo i primi a rifiutarci di usare una molecola che presentasse serie minacce per noi, i nostri operatori, l’ambiente in cui lavoriamo, i nostri consumatori; per cui abbiamo seguito con molta attenzione la vicenda e gli studi fatti sul glifosato. Noi agricoltori abbiamo piena fiducia nelle agenzie comunitarie: sia EFSA – l’Agenzia Europea per le Sicurezza Alimentare – sia ECHA – Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche – hanno concluso che la molecola è sicura. Anche al di fuori dell’UE le conclusioni sono state le stesse. Preoccupa assistere alla demonizzazione fatta senza evidenze scientifiche. Non è la prima volta che accade: lo abbiamo già vissuto con la messa al bando della coltivazione di piante ottenute con la tecnologia OGM – ma non della loro importazione – una tecnologia che poteva aiutare l’agricoltura e migliorare la sua sostenibilità e che è stata di fatto annientata senza uno straccio di prova. Ne paghiamo ancora le conseguenze in termini di sostenibilità: tanti centri di ricerca anche pubblici hanno di fatto interrotto il lavoro di miglioramento genetico che stavano compiendo sulle piante tipiche delle produzioni Made in Italy, che oggi soffrono di mancanza di competitività. Alla fine, credo che il nostro obiettivo comune dovrebbe essere la sostenibilità ambientale ed economica della produzioni: mi domando se sia davvero così per tutti gli attori di queste vicende. Ecco, direi che la cosa che più ci preoccupa è la deriva ideologica, non scientifica, su cui talvolta si prendono le decisioni in materia di cibo e agricoltura. Siamo consapevoli che le paure delle persone vanno tenute in seria considerazione e rispettate, ma proprio per questo non vogliamo che vengano manipolate: la paura è un potente strumento di consenso; noi preferiamo ragionare sui fatti. Ci piacerebbe coinvolgere la società nelle sfide che dobbiamo affrontare, per scegliere in modo responsabile e con competenza e informazione».