EMBRACO, WHIRLPOOL: LA FARSA DELLA RE-INDUSTRIALIZZAZIONE

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Ricordate la vicenda della Embraco? Se vi è passata di mente, ci proviamo noi a rinfrescarvi la memoria.
La Embraco, proprietà Whirlpool, voleva chiudere lo stabilimento di Riva di Chieri (TO), mettendo per strada circa 500 lavoratori. Il motivo? Il solito: fuori dall’Italia facciamo più soldi, quindi vogliamo chiudere qui e aprire altrove. “Delocalizzare”, così si dice.
Calenda, all’epoca ministro nel governo PD, si impuntò, sbatté i pugni sul tavolo – proprio come ora pare stia facendo Di Maio ai tavoli con la Whirlpool che vuol chiudere lo stabilimento di Napoli – e ottenne la promessa di una “re-industrializzazione”.
La Embraco cedette dunque alla Ventures, impresa italiano-cinese-israeliana.

A un anno dall’accordo che succede? Nulla! L’accordo è rimasto di fatto disatteso.

Quando il 31 luglio Calenda, oggi europarlamentare, sempre PD, si è presentato a Riva di Chieri, non potevamo non accoglierlo anche noi.
Ha dovuto ammettere che c’è il nulla cosmico. Ha promesso un audit della Ventures – anche a spese proprie, se fosse necessario – per capire se l’azienda sia solida o meno. Oggi? A un anno dall’accordo?

E poi si è lasciato andare a un’accusa implicita: forse è stato tutto “pre-ordinato”. Che significa? Che la re-industrializzazione potrebbe esser stata una farsa per facilitare l’addio della Whirlpool. Quando siamo stati ad Amiens (Francia) per parlare con gli operai della ex Whirlpool di lì, ci hanno raccontato la stessa storia:
a) Whirlpool vuole chiudere; si raggiunge l’accordo per la cessione ad azienda terza con la promessa di re-industrializzazione;
b) la re-industrializzazione finisce in un nulla di fatto;
c) i lavoratori, presi in giro, vengono sbattuti comunque per strada, come da volontà iniziale del gigante USA.

Per chiudere, Calenda ha suggerito alla FIOM di fare ricorso al fondo paracadute anti-delocalizzazione, da lui stesso creato, preconizzando una specie di nazionalizzazione.
Meglio che Calenda, visti i danni fatti, esca di scena. Che siano i lavoratori stessi e chi li ha sostenuti fin dall’inizio a farsi carico di immaginare e costruire il futuro, compreso un possibile ingresso “attivo” dello Stato.

Di “amici del popolo” ne abbiamo visti fin troppi. Se iniziamo a sgomberare la strada, avremo già fatto un buon servizio ai lavoratori, che di tutto hanno bisogno tranne che di altri affabulatori.