Eshkol Nevo – Tre piani – Vicenza, Neri Pozza, 2017. – 255 p. (174)

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Tre piani in una tranquilla palazzina borghese di Tel Aviv, in cui tutto apparentemente funziona alla perfezione, sia all’esterno che all’interno degli appartamenti; pure, tutti gli abitanti vivono piccoli e grandi drammi interiori per situazioni in apparenza diverse, ma sostanzialmente tutte riconducibili all’eterna lotta interiore sempre presente nell’essere umano. Ogni piano ha una sua caratteristica, ad ogni piano lottano insieme alle persone le tre diverse istanze freudiane, l’Es (il rapporto istintivo con gli altri), il Super io (il profondo della coscienza, della verità e della giustizia) e l’Io (il giudice conciliante tra le due parti). In questi bollori emotivi Nevo si muove magistralmente, al limite della paranoia di “woodialleniana” memoria, raccogliendo con acutezza e sensibilità i vari momenti di vita dei personaggi che si confessano con un amico scrittore, un’amica psicologa e una segreteria telefonica. L’originalità espressiva accompagnata ad una sapiente e colta narrazione descrittiva rendono gradevole e scorrevole la lettura, pur con dei momenti di perplessità dovuta al soffermarsi su particolari di non primaria importanza.

Al primo piano una coppia di giovani affida occasionalmente la figlioletta alla cura di due anziani giunti in Israele dalla Germania, persone ammodo, colte, ma con un però. Un giorno Hermann “rapisce” la bimba scatenando la cieca furia del padre Arnon, con la moglie Ayelet che funge da mediatrice. Il problema psicologico nasce quando l’anziano, che soffre di Alzheimer, si impappina nello spiegare il perché del gesto, suscitando forti dubbi nel padre su ciò che è veramente accaduto.

Al secondo piano Hani vive la sua solitudine di madre di due bambini – il marito Assat è quasi costantemente all’estero per lavoro – e (da quando sua madre è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico) quasi si avvicina alla follia. Qui lo spunto per l’approfondimento psicologico nasce quando il cognato Eviatar, da anni lontano dalla famiglia, assalito dai creditori che ha derubato, chiede aiuto. La solitudine così si interrompe, ma nascono conseguenze, positive per i bambini, negative per lei; problemi che ad un certo momento la portano a pensare che tutto quello che ha vissuto è solo frutto di immaginazione.

Il personaggio del terzo piano – il racconto meglio riuscito – è frutto di una brillante idea dell’autore, che ha inserito il comportamento misantropo, ribelle, libero e forse cinico di un figlio, Arad (ubriaco, ha investito uccidendola, una donna incinta e non si è mai pentito) nella vita di due giudici con due visioni diverse: la madre, più tollerante, e il padre più severo. Dopo i primi tentativi di conciliazione il figlio capisce ed abbandona la famiglia, dopo aver pagato la sua pena, senza più farsi sentire né vedere. Dovra, la madre, dopo tanti anni, e dopo la morte del marito, si ritrova coinvolta in un movimento giovanile di protesta a cui dà consulenza legale e racconta, per sfogarsi, tutto quello che accade a una vecchia segreteria telefonica che ha ancora incisa la voce del marito. Avner, ex agente Mossad in pensione, farà incontrare dopo tanti anni madre e figlio…

Forse si tratta di tre allegorie legate alle ansie e ai timori umani più profondi: quando ci si sente colpiti negli affetti più intimi, si cerca una via di conciliazione o di fuga per ritrovare se stessi ed il proprio equilibrio; ma qui, fa capire l’autore, occorre contestualizzare ciò che accade ai tempi che viviamo e alle persone che frequentiamo, allontanandoci, pur rispettandolo, da un passato che non può dare né le risposte giuste né le conoscenze della sopraggiunta consapevolezza.

Un’ultima nota riguarda le personalità dei protagonisti, che, oltre l’apparente debolezza, esprimono nell’agire una forza e un coraggio non comuni; sembra quasi che l’autore ci voglia dire che la forza dell’essere umano sta nella sua debolezza interiore e non nella sua forza apparente.

Franco Cortese Notizie in un click febbraio 2020