Geraldine Brooks – L’isola dei due mondi – Vicenza, Neri Pozza, 2011, 335 p. (197)

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Siamo nel 1648, in una piccola comunità inglese di pionieri puritani insediatisi in America settentrionale, sull’isola di Martha’s Vineyard.

Bethia è una dodicenne dall’intelligenza vivace, che conosce il giovane Caleb (così chiamato da lei, come il biblico aiutante di Giosuè ed amico di Mosè), indigeno di una tribù locale, i Wanpanoag (che significa popolo della luce).

Nasce così per caso, su una spiaggia, un’amicizia che durerà per tutta la vita e che porterà infine il giovane a laurearsi ad Harvard con lode; i due vivono insieme mille peripezie che testimoniano, da un parte, il dialogo – scontro/incontro – tra due ragazzi aperti in cui ognuno impara molte cose dall’altro, dall’altra, un confronto serrato tra due mondi completamente diversi, avente come base l’aspetto religioso-spirituale. Lui finirà per essere assorbito dalla cultura e civiltà di lei, ma conserverà un residuo di tradizioni e radici dei suoi avi, pur eccellendo, come si diceva, negli studi; lei rimarrà fedele al suo Dio cristiano ma imparerà a rispettare le credenze pagane di lui, che non capisce né concepisce ma da cui rimane affascinata.

Storicamente questo romanzo – qui presentato in estrema sintesi – è ispirato alla reale vicenda del primo indigeno che si è effettivamente laureato ad Harvard ed è narrato con sensibilità e con intrecci di avvenimenti storici e fantastici e conoscenze approfondite e ben esposte da questa scrittrice australiana (nata nel 1955) vincitrice del Premio Pulitzer 2006.

Ai bei “ritratti caratteriali” dei personaggi principali, si affiancano le descrizioni di quelli minori: il fratello di lei Makepeace (non bravo negli studi, culturalmente rigido e tradizionalista e… un po’ invidioso), il padre Mayfield (vedovo, pastore della comunità), lo stregone Tequamack (zio di Caleb e molto abile nelle sue arti magiche), il professore Elijam Corlett (preparatore dei ragazzi, che gestisce la casa che li ospita prima dell’ammissione all’università) e suo figlio Samuel (che finirà per sposare Bethia). Tutti personaggi – compresi altri non citati, maggiori o minori – che rappresentano inoltre dei simboli di caratteri, cultura e sentimenti non solo della loro epoca ma, che, per proiezione storica, sono soggetti validi e presenti anche nella nostra epoca e in tutte le latitudini: buoni o cattivi, meno aperti al nuovo che incontrano nella loro vita e legati, in ogni caso, alle proprie tradizioni, fede e religione, oltre che ai principi con cui sono cresciuti.

Da sottolineare infine Bethia, persona che “si auto istruisce”, rubando conoscenze, sacrificando ore di riposo, lottando per la conoscenza, in un mondo in cui è proibito impartire alle donne l’educazione e gli studi; comunque in questo romanzo – come accade per l’Ipazia d’Alessandria nel mondo scolastico ellenico e per l’italiana Artemisia Gentileschi nell’arte – riuscirà, con tenacia ed impegno, contro tutti e contro tutto a decidere del proprio destino ed ottenere la sua molto desiderata libertà.

Franco Cortese Notizie in un click novembre