I voti del centro? Ce li abbiamo già. La sinistra deve rimettere i piedi nel fango

0
79

Cnque anni fa il Pd al 40 per cento si presentò agli italiani come il “Partito della Nazione”, storpiando in maniera improvvida una riflessione sulla crisi della democrazia di Alfredo Reichlin. Un furto di copyright per giustificare la svolta successiva sul Jobsact, la buona scuola e il plebiscitarismo referendario. Si sa come andò a finire.

Oggi la Lega sfonda, con una dinamica elettorale che la porta a raddoppiare le percentuali in poco più di un anno e a mangiarsi il suo principale alleato di governo. Salvini è il nuovo kingmaker della politica italiana e ai suoi orientamenti sono appese le sorti della legislatura. Ha plasmato la Lega, l’ha rimessa in campo su tutto il territorio nazionale, trasformandola definitivamente nel “Partito del Senso Comune”.

Attenzione a semplificare, chiamandola comodamente “onda nera”. I rigurgiti neofascisti ci sono e si vedono, ma quando prendi il 34 per cento significa che viene avanti qualcosa di più complesso: ce lo dice soprattutto l’interclassismo dell’insediamento elettorale leghista.

Il Senso Comune, ci ammonisce Gramsci, è sempre reazionario perché è animato innanzitutto da pulsioni spesso contraddittorie, dove quello che conta è la fabbricazione del nemico prima ancora del messaggio ideologico.

La Lega è allo stesso tempo sacra e profana. Cattolica ed antivaticana. Padronale e anticonfindustriale. Padana e nazionalista. Autonomista e sovranista. Legalitaria e garantista. Governista e antisistema. Neoliberista e statalista. Si potrebbe continuare all’infinito: quelle che appaiono contraddizioni si sono rivelate la miscela esplosiva di una nuova identità che si muove attorno al Senso Comune del ceto medio arrabbiato, che si è aggrappato alla giostra di Salvini, unico garante della stabilità politica e della sicurezza nazionale.

L’ossimoro anziché una gabbia diventa un moltiplicatore, un collante di pezzi diversi di società che hanno paura. Impossibile sapere quanto tempo reggerà: il Partito della Nazione durò un anno e poi si schiantò nelle secche referendarie. Il Partito del Senso Comune è più contemporaneo, si adatta camaleonticamente alle pieghe di una società frammentata e pulviscolare, ha la capacità dell’immediatezza del messaggio social ma riesce a conservare la fisicità della piazza.

Le ricette restano sempre quelle classiche della destra: proteggetevi e arricchitevi. Sicurezza nelle periferie, Flat Tax per i ricchi. Ai nullatenenti diamo meno neri in circolazione nei quartieri, a chi produce e sta bene meno stato e meno tasse e persino qualche condono.

Questa formula continua a fare proseliti nel mondo, per quanto timidamente cominci a prendere piede una opposizione progressista a questo impianto. Ancora troppo flebile, ancora troppo letteraria, ancora troppo chiusa nel recinto sociale delle grandi città. Salvini vince in un’Italia fatta di piccoli e medi comuni, la dorsale urbana di questo paese, quelli che la transizione ecologica l’hanno vissuta attraverso i tagli al trasporto pubblico locale e l’aumento del gasolio, che hanno conosciuto la chiusura dei punti nascita e dei piccoli presidi sanitari, che hanno visto gli artigiani tassati più di Amazon, che hanno subito la desertificazione produttiva che ha scombussolato orari di vita, reddito, certezze economiche. Quelli che hanno assistito allo spopolamento generazionale con una fuga mai vista di giovani dal loro contesto natale verso l’estero. Quelli che temono i migranti e la cosiddetta sostituzione etnica anche se non hanno visto mai il minareto di una moschea in vita loro. Dove conta più la proiezione televisiva di “una vita in diretta” che tanti talk show fotocopia dove tutti applaudono tutti a prescindere da quello che viene detto.

La destra dunque ha stravinto e se andassimo al voto anticipato, anche per effetto della demenziale legge elettorale vigente, la somma tra i collegi uninominali e il proporzionale porterebbe la destra a debordare e ad avere la maggioranza più larga della storia repubblicana. Eppure il segnale della lista unitaria ha riattivato forze, speranza, energie.

Un pezzo di elettorato di sinistra che aveva votato LeU, mezzo milione circa di voti, ha scelto di andare lì, insieme ad Articolo Uno, per dare una mano alla Ricostruzione di un campo alternativo insieme a Zingaretti. Ora dopo averci messo il cuore, occorre metterci la testa.

Quello che c’è non basta per tornare a vincere. Calenda e Renzi dicono che c’è bisogno del centro e dei moderati. Ma non si capisce cosa significhi. Se parliamo di collocazione al centro ci siamo già. Tutti. I più radicali e i più riformisti.

Prendiamo il voto dei grandi centri urbani e specificatamente dei loro centri storici. Siamo dunque “al centro del centro nel centro”. Non è uno scioglilingua, ma la definizione più appropriata dell’attuale radicamento sociale dello schieramento progressista. Siamo quelli che parlano a chi ce la fa, a chi non vive l’insicurezza sociale e culturale, a chi regge a fatica, ma nonostante tutto regge.

Se vogliamo rimettere gli scarponi nel fango serve riacchiappare la questione sociale e darle forma e rappresentanza politica. Se poi qualcuno vuole insistere e rompersi la testa sulla retorica del liberalismo economico e sociale, lo faccia. Tanti auguri. Qui c’è invece bisogno che chi anima il campo unitario prenda di petto il tema di una nuova piattaforma ecologista e socialista. Tirando dentro quelli che in questi mesi sono rimasti a casa. Dando una risposta a quelle domande che i grillini hanno prima interpretato e poi tradito. Si chiamano lotta ai privilegi e sofferenza sociale. Da lì non si scappa, se si fa sul serio, se vogliamo essere davvero un argine alla destra. Con meno di questo non si gioca la partita.