Ieri Berlusconi, oggi Salvini: nell’Italia della palude non basta il consenso

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Non possiamo fare nostra la celebre frase “governare gli italiani non è difficile, è inutile”, attribuita tanto a Giovanni Giolitti quanto a Benito Mussolini. Perché altrimenti dovremmo smettere di interessarci alle vicende politiche di questo Paese e lasciare perdere qualsiasi auspicio per il futuro. Non avrebbe senso continuare a consumare ulteriori energie. Pur nella consapevolezza di tante difficoltà, guai a spegnere la fiammella della speranza. È evidente tuttavia come, almeno dal 1994 ad oggi, si sia sempre rivelato piuttosto arduo, a livello politico nazionale, passare dalle parole ai fatti, decidere ed incidere, e lasciare infine, al termine di un’esperienza governativa, cambiamenti significativi e duraturi. Questa cronica difficoltà ha pesato enormemente sulla vita, e sulla morte, dei governi di centrodestra, impedendo di fatto l’apertura a riforme di stampo liberale.

L’immobilismo italico ha segnato soprattutto la sorte del vecchio centrodestra a trazione berlusconiana, perché quella coalizione, almeno a parole, voleva la “rivoluzione liberale”, mentre Pd e centrosinistra si trovavano, e si trovano, a loro perfetto agio con lo status-quo imperante nel Belpaese. Onestamente, molti fallimenti del berlusconismo sono da addebitare allo stesso Berlusconi e ad una parte di classe dirigente forzista. Pochi anni dopo la leggendaria discesa in campo furono compiute scelte precise attraverso la progressiva emarginazione dei riformatori e dei liberali delle origini, e la promozione di eredi della Dc e del Psi. Con altrettanta onestà intellettuale, bisogna però ricordare come tutte le istanze di innovazione del centrodestra venissero sistematicamente frenate da quel blocco di poteri e di caste da sempre ostile ad ogni cambiamento in Italia. Berlusconi macinava voti, ma il Quirinale, in particolare con l’avvento di Giorgio Napolitano, remava quasi sempre contro. La persecuzione giudiziaria nei confronti del Cavaliere e di molti dei suoi uomini, in grado di spaziare dalla collusione mafiosa alle escort, rimarrà impressa nella Storia meno nobile di questo Paese. Non dimentichiamo il fango di grandi e ricchissimi gruppi editoriali, e nemmeno la triplice sindacale, ai tempi di Silvio assai più forte rispetto ad oggi, che scioperava a prescindere di fronte ai governi di centrodestra. Con Romano Prodi e gli esecutivi ulivisti, chissà perché, c’era più indulgenza da parte di Cgil, Cisl e Uil. Appunto, Berlusconi macinava voti, ma l’azione di governo non era e non poteva essere serena. Non a caso fa un po’ impressione il Berlusconi odierno, che impartisce lezioni “politicamente corrette” a Salvini.

Venendo ai giorni nostri, proprio per quanto riguarda il leader della Lega, pare di rivivere, perlomeno nel metodo, parte di ciò che è già accaduto attorno alla persona di Silvio Berlusconi. Matteo Salvini e il suo partito non hanno origini squisitamente liberali, né promettono rivoluzioni in tal senso, ma di fatto propongono, tramite flat tax ed altro, una discontinuità sul fronte fiscale, che si pone come alternativa alla cultura punitiva del solito Pd ed anche al malcelato odio classista del M5S. Vi sono le autonomie regionali, invise un po’ a tutti. L’istanza di cambiamento si fa netta se si parla di immigrazione e sicurezza. Senza entrare nel merito dei risultati concreti ottenuti finora dall’azione del ministro dell’Interno, è certo che Salvini rappresenti colui che dice “basta”, pur fra mille ostacoli, all’immigrazione senza regole, e questo disturba moltissimo tutti coloro i quali hanno tratto vantaggio sinora, politicamente ed economicamente, dall’Italia come ventre molle dell’Europa.

Quindi c’è il tentativo di affondare il personaggio Salvini, peraltro ancora in crescita elettorale, e se il siluro letale dovesse mancare l’obiettivo, è comunque pronto il disegno per ridimensionare quantomeno le ambizioni del leader del Carroccio. Insomma, qualche intimidazione qua e là per via giudiziaria affinché il ragazzo si dia una calmata e non pensi di vivere in un Paese normale, dove il consenso popolare è sufficiente per cambiare le cose. Un po’ come è capitato a Berlusconi, passato da Reagan alle dentiere offerte dallo Stato. Non riuscirono a cancellare il Cav dalla mappa politica e dalla testa degli elettori, ma furono capaci di comprimere le potenzialità riformatrici del vecchio centrodestra. Ci stanno provando adesso con Matteo Salvini. La magistratura, almeno la parte deteriore di essa, è in campo da qualche tempo ormai. I famosi 49 milioni di euro da restituire arrivano dalla gestione passata di Bossi e Belsito, ma vengono usati strumentalmente per colpire oggi Salvini. Poi il caso Siri, ovvero la vicenda di un uomo che si sarebbe venduto alla mafia per soli 30 mila euro, il che, pur nel rispetto delle indagini, non può non generare qualche dubbio. Il trattamento riservato a Carola Rackete la dice lunga sull’intenzione di alcune toghe di sfidare apertamente l’autorità rappresentata dal responsabile del Viminale, a costo di premiare anche l’illegalità. In merito all’affaire Lega-Russia non ci dilunghiamo (ne abbiamo già parlato su Atlantico), ma almeno due aspetti devono essere sottolineati e ribaditi. In questo momento più che mai, Matteo Salvini ha il dovere di chiarire ulteriormente il suo posizionamento internazionale, ma lo scandalo o presunto tale dei rubli di Putin ricorda, in piccolo, il Russiagate farlocco confezionato in America per tentare di disarcionare Donald Trump. Gli avvoltoi, attorno al piccolo Russiagate italiano, possono essere molti, e non si può escludere che vi siano anche quei connazionali di Salvini che intendono abbattere o riportare a più miti consigli un leader, il quale, checché se ne pensi, non ne ha finora sbagliata una sul piano elettorale. Con diverse grane in corso, magari ci si astiene dall’avventurarsi in riforme coraggiose, come potrebbe essere quella riguardante la giustizia e la separazione delle carriere dei magistrati. Ieri Berlusconi, oggi Salvini, domani magari qualcun’altro.

Chiunque voglia cimentarsi in un cambiamento concreto di questo Paese, con l’obiettivo di rimuovere in maniera liberale le tante incrostazioni stataliste e parassitarie, le rendite di posizione e l’uso partigiano di poteri super partes, deve sapere sin da subito che le vittorie elettorali rappresentano solamente l’inizio di una lunga e faticosa battaglia da combattere con tenacia nel lungo periodo. Costui o costei non aspetti gratificazioni nell’immediato, perché già lo stesso sistema politico-istituzionale, mai riformato a dovere, non aiuta di certo, e dal Quirinale o dal potere giudiziario possono abbattersi macigni sul potere esecutivo. Occorre essere anzitutto il più possibile inattaccabili, sbarrando così la strada ai fabbricatori di inchieste traballanti e di fake news. È necessario costruire una classe dirigente capace di sopravvivere al proprio leader, perché la sfida è lunga e senz’altro non si può pensare, in questa Italia, che una pur alta percentuale in una consultazione elettorale permetta di risolvere tutto e subito. La partita del cambiamento è impegnativa, ma non impossibile e nemmeno inutile. Se la sindacatocrazia, parte di quel blocco immobilista fautore dello status-quo, ha perso terreno, la casta delle toghe politicizzate ha ormai sciupato del tutto quel poco di verginità che ancora aveva. La vicenda Palamara ed altri casi, in seno al Csm, di scarsa moralità e di contiguità con il Partito democratico, ci hanno confermato come le cosiddette toghe rosse non fossero soltanto un’invenzione berlusconiana.                                                                                                       fonte http://www.atlanticoquotidiano.it