IL CAMPO DA GIOCO E LE SQUADRE

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GUIDA (?!) ALLE ELEZIONI POLITICHE 2023
Non esiste politico italiano che non affermi, ogni volta che può, che scuola e università siano dimensioni fondamentali per le politiche pubbliche.
Nella maggior parte dei casi lo dici, prendi l’applauso, e te ne vai.
Perché – si sa – chi in questi campi si azzarda a passare dalle parole ai fatti (o anche semplicemente dagli slogan vaghi alle proposte specifiche) ne paga un forte prezzo in termini di consenso.
Quindi oh, non scherziamo. Va bene le belle parole, ma per carità fermiamoci li.
Nelle ultime settimane vi sono stati due episodi – relativi rispettivamente a scuola e università – che possono aiutarci nel definire meglio le offerte politiche che si presenteranno ai cittadini nel 2023, e il cui quadro al momento appare così confuso e così appeso a fatti e circostanze (“cosa deciderà Conte”, “quanto davvero Letta ce l’ha ancora con Renzi” ecc) che con il miglioramento effettivo della vita dei cittadini non sembrano avere proprio una diretta influenza.
Vediamoli insieme.
SCUOLA
Il curriculum dello studente è una fotografia del percorso formativo svolto dal ragazzo/a, che include le esperienze fatte in ambito scolastico ed extra scolastico.
Ad esempio, se uno studente ha acquisito una certificazione di competenze informatiche o linguistiche, o se ha svolto attività di volontariato, lo inserisce in quel documento.
Che quindi raccoglie tutto ciò che non è l’elenco dei voti, ma che tuttavia è rilevante per l’ambito formativo – in senso esteso – in quella delicata età.
È un documento sempre esistito, ovviamente. Ma che dalla scorsa legislatura – con un provvedimento rimasto inattuato – si era previsto che potesse essere presentato all’esame di Stato. Non certo per essere sottoposto a valutazione diretta (non per il suo contenuto, ma piuttosto per la capacità di esposizione e argomentazione) ma per far sì che lo studente potesse utilizzarlo come ausilio per far capire meglio chi è, cosa ha fatto e cosa ha imparato (ed è solo quest’ultima dimensione, ovviamente, quella sottoposta a vera valutazione).
L’attuale ministro della Pubblica Istruzione ha avuto, nelle scorse settimane, la “colpa” di riesumare quelle disposizioni per applicarle davvero.
Da più parti è partita l’accusa secondo cui tale gesto definisce in maniera inequivocabile un atteggiamento “paleoliberista”.
La tesi principale pare essere che non bisogna fornire nessun elemento di potenziale discriminazione basato su opportunità non perfettamente uguali che gli studenti possono aver avuto.
Dimenticando in primo luogo – come detto – che non si tratta di un oggetto di valutazione in quanto tale, ma solo all’interno della capacità dello studente di dimostrare di aver messo a frutto quelle esperienze ai fini dell’apprendimento ; e in secondo luogo che compito principale della scuola è la formazione della persona. E se alla “persona formanda” non si consente di presentare quello che ha fatto nel corso degli anni per formarsi (nella scuola e fuori) davvero non si capisce di cosa accidenti stiamo parlando.
E dimenticando soprattutto la cosa fondamentale: che il sacrosanto principio della parità di opportunità di accesso (fondamento della cultura liberale) non significa obbligare tutti a fare le stesse cose perché da ogni minima differenza può scaturire una potenziale violazione delle pari opportunità. Così, non a caso, hanno sempre ragionato i regimi, non le democrazie.
UNIVERSITÀ
Nei giorni scorsi decine di giuristi e costituzionalisti hanno scritto e pubblicato un appello al Presidente del Consiglio in cui si scagliano contro un concetto – a loro dire – non solo totalmente anti-costituzionale, ma che pregiudicherebbe la stessa idea di Europa.
Tale pericoloso concetto è l’idea secondo cui parte del finanziamento pubblico all’università e alla ricerca dovrebbe essere distribuito non in parti uguali ma sulle base dei risultati ottenuti. Come però avviene in tutti i paesi del mondo (e pure, in minima parte, in Italia).
Per costoro, il compito del potere pubblico per quanto concerne il rafforzamento del nostro settore universitario dovrebbe essere il più semplice di tutti: distribuire i soldi a pioggia e non rompere troppo le scatole col resto. E così – e solo così – che si perseguono gli interessi di studenti, docenti e del Paese stesso.
Ogni deviazione da questo sacro principio (che abbiamo già incontrato in quei sindacati che hanno “crocefisso” quella dirigente pubblica per non aver attribuito il punteggio massimo a tutti i dipendenti del suo ufficio per la retribuzione accessoria) rappresenta una violazione della Costituzione, dell’idea di Europa e probabilmente – chissà – pure della Convenzione Internazionale contro la Tortura.
Questi docenti, in realtà, stanno affermando una sola cosa: il diritto – per un dipendente pubblico e in particolare per un lavoratore della conoscenza – di non essere mai, mai, mai sottoposto a nessun tipo di valutazione del proprio lavoro.
Senza tra l’altro che rappresenti una posizione particolarmente originale: sono molti anni che nelle università italiane, in varie forme, avanza un orientamento del genere.