Il coraggio di Susanna

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Ieri, un articolo del “Diario del Lavoro” dedicato al congresso, firmato da Gaetano Sateriale, è rimbalzato su tutte le bacheche Facebook degli esponenti di “peso” dell’area “migliorista” della Cgil. Emilio Miceli, Alessandro Genovesi, ma anche altri, lo hanno condiviso e proposto sui loro profili come un contributo di riflessione, senza intenti polemici o provocatori. E questo è un passo avanti per tutti. A raccogliere le sollecitazioni esposte nell’articolo, tuttavia, sono stati in pochi, tutti professionisti del sindacato. E’ stato un dibattito d’élite, che non ha rotto il muro dell’autosufficienza dell’apparato. Ed è un peccato. Chi ha commentato il post (pochi, quasi nessuno), tra l’altro, lo ha fatto in maniera critica, respingendo garbatamente le tesi di Sateriale. Qualcosa vorrà dire. Cosa?

Intanto, che il malessere che attraversa l’area “migliorista” della Cgil, e di cui Sateriale si fa portavoce, non è diffuso nel corpo complessivo dell’organizzazione, dei delegati, degli iscritti. E’ un malessere circoscritto a pezzi di gruppo dirigente. Assolutamente legittimo. Ma distante, anzi antagonistico, rispetto al sentiment generale, almeno quello percepibile. E questo, al di là del merito delle questioni poste da Sateriale, è un bel problema. Il riformismo “verticale” ha smarrito la sua capacità “pedagogica”, non ha più radicamento nella base, le sue parole d’ordine, le obiezioni sulle questioni di metodo (pur importanti, quando non strumentali) appaiono come armi spuntate. Persino il preoccupato richiamo all’unità della Cgil (come non essere d’accordo?) non va oltre al puro esercizio retorico perché non risponde a due questioni decisive. Unità per fare cosa? Unità tra chi?

Uniti per fare cosa?

Il congresso si svolge su un documento unitario. Che poi in realtà sono due, di cui uno, maggioritario, raccoglie il favore di gran parte dell’organizzazione, votato dalla maggioranza degli iscritti. E dunque, in teoria, la Cgil sarebbe già abbastanza unita, quasi monolitica, stando ai primi dati delle assemblee congressuali. Su cosa, dunque, la Cgil non sarebbe unita se quasi tutti, anche Maurizio Landini e Vincenzo Colla e Ivan Pedretti, hanno aderito allo stesso programma? Sulle procedure (peraltro conformi alle prassi e ai dispositivi votati in direttivo nazionale) che hanno portato all’indicazione di Landini? Ma se si è uniti, se non è una questione di Weltanschauung, se i congressi non si fanno sui nomi ma sulle idee, che importanza può avere il nome di chi è chiamato ad interpretare le visioni programmatiche? Su cosa, in definitiva, non si è uniti? Quale nodo è rimasto irrisolto? E’ vero, c’è la questione contingente (o forse strategica) del rapporto col governo e più in generale con la categoria teorico-politica del populismo. C’è anche la questione dei retaggi politici dei singoli dirigenti, dei loro rapporti o delle loro appartenenze vere o presunte con i partiti (lo stesso Sateriale è stato sindaco in quota Pd). Ma siamo ancora alla speculazione, al “guscio mistico” della questione. Il punto vero, “il nocciolo razionale”, avrebbe detto Marx, sta nella crisi della democrazia di delega e del suo funzionamento nel tempo dell’egemonia populista, nell’allargamento delle distanze tra rappresentati e rappresentanti, nella domanda di partecipazione dal basso che investe anche i corpi intermedi. E questa crisi, non si risolve blindandosi dietro le procedure, barricandosi nel fortino dell’autosufficienza identitaria o della superiorità “morale” dei gruppi dirigenti ma affrontandola a viso aperto, mettendo in discussione paradigmi, ripensandosi e autoriformandosi, superando paure e prudenze, facendo sì che il congresso, che il sindacato, viva – come dice Susanna Camusso nel famoso video su Facebook – nell’attività dei nostri delegati e dei nostri iscritti.

Uniti con chi?

“Unità della Cgil”, scrive Sateriale. Unità della Cgil ripetono in coro gli esponenti del riformismo temperato. Giusto. Ma unità tra chi? Tra i gruppi dirigenti? Sarebbe questa la “sintesi” che risolve tutti i problemi? E’ vero, è sempre stato così, già a partire da Di Vittorio e per tutto il novecento, quando c’erano, però, i grandi partiti di riferimento e la sinistra esprimeva egemonia nella società, una sinistra di massa, popolare, quando la dottrina della “disintermediazione” e lo tsunami populista non avevano ancor travolto i corpi intermedi e la democrazia rappresentativa. E allora non bastano più gli schemi pattizi e apicali tra sensibilità d’apparato. Serve una nuova “sintesi”, una nuova unità tra gruppi dirigenti e iscritti. E ha fatto bene Susanna Camusso ad allungare le orecchie anche verso la base, dopo avere – prioritariamente e secondo le regole – consultato i gruppi dirigenti. Landini è il frutto naturale di questa sintesi.

Ed è proprio nel modo di concepire il ruolo e il “peso” della base o dell’apparato e sui modelli di partecipazione sindacale la vera distanza, quasi incolmabile, tra le due visioni che si confrontano nella Cgil, quelle che le sintesi giornalistiche, e anche questo blog, chiama sbrigativamente, il modello movimentista e quello riformista, il sindacato “dal basso” e il sindacato “dall’alto”.

Tra i due modelli c’è una terza via. Ed è quella intrapresa da Susanna Camusso, sfidando le resistenze d’apparato e proponendo Landini. Ed è questo forse l’atto di innovazione più dirompente, più lungimirante e coraggioso del suo mandato di segretaria generale.