Il Pci commise un grave errore

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A cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto, l’ultimo segretario del Partito Comunista ricorda lotte e conquiste di quegli anni e ammette astenersi su quella legge fu uno sbaglio

In quell’anno mi trovavo in un momento di passaggio del mio incarico politico: ero stato responsabile stampa e propaganda del partito poi Enrico Berlinguer mi chiamò e mi chiese di fare un’esperienza sul campo, a diretto contatto con la gente, perché allora si usava fare così per formare i quadri politici. Quindi quando lo Statuto dei lavoratori divenne legge mi trovavo a Palermo, impegnato in una battaglia estremamente dura: impedire a Vito Ciancimino di diventare sindaco, una battaglia vinta grazie all’alleanza con le forza sane e antimafiose della città. Intanto a Roma la legge era stata molto discussa in Parlamento. Il Pci aveva deciso di astenersi perché la riteneva insufficiente. A mio giudizio si trattò di un errore, di una posizione molto miope dettata prevalentemente da motivi di politica generale e dal contrasto con il centro-sinistra che offuscò in parte le nostre idee. Il nostro partito aveva colto dei limiti, tuttavia secondari, che si riferivano al fatto che la giusta causa avrebbe coperto solo chi lavorava in aziende con almeno 15 dipendenti. In realtà si trattò di un salto di civiltà di notevole portata per la dignità e i diritti dei lavoratori: come si disse all’epoca per la prima volta la Costituzione entrava in fabbrica, dopo tanti anni di discriminazioni che avevano colpito duramente lavoratori, sindacalisti e politici.

Fu un evento sconvolgente: non si sapeva all’epoca che quell’esperienza e quegli anni sarebbero stati il momento storico di più grande riformismo radicale mai più ripetuto da nessun governo della nostra storia repubblicana, neppure da quelli successivi alla caduta del Muro di Berlino. Erano gli anni in cui si conquistava tutto: lo Statuto, le riforme sul terreno della scuola, come pure le grandi lotte per i diritti civili che diventarono per la prima volta il centro dell’interesse della politica italiana. Enorme fu il merito del ministro socialista Giacomo Brodolini e poi del suo successore Donat-Cattin, nonché di quell’uomo eccezionale che ebbi la fortuna di conoscere e che fu Gino Giugni. Ma va sempre ricordato che tutto avvenne perché alle spalle c’erano state le grandi lotte operaie e il biennio di fuoco del Sessantotto e dell’autunno caldo.

Ecco: quegli anni, precedenti allo Statuto, vissuti con grande passione, hanno trasformato la mia vita e il mio modo di concepire la politica e quando riconsideriamo quell’epoca dobbiamo essere consapevoli dell’unicità e dell’originalità dell’esperienza del Sessantotto italiano nel panorama mondiale. Prima di essere stato responsabile della stampa e della propaganda del Pci, ero stato alla guida dei giovani della Fgci. Sicuramente spiccano le importanti esperienze americane, penso all’Università di Berkeley, o il maggio francese, ma solo in Italia c’è stato questo formidabile rapporto tra operai e studenti. Ricordo ancora le parole d’ordine: “operai e studenti uniti nella lotta”. Questo legame era stato facilitato, in qualche modo, proprio dalle caratteristiche e dalla carica fortemente innovatrice che aveva assunto la lotta operaia. I temi e gli obiettivi fondamentali per il sindacato e i lavoratori erano il diritto di assemblea e i consigli di fabbrica e, in essi, era del tutto evidente il legame con quel mutamento di equilibri e relazioni indotto dal movimento studentesco che della partecipazione assembleare aveva fatto la propria essenza. Gli studenti dunque si ritrovarono in questa impostazione nuova del sindacato, così come condivisero l’obiettivo del “lavorare tutti e lavorare meno” e quindi l’idea di un cambiamento del lavoro e della sua stessa organizzazione stessa. Non fu una solidarietà estrinseca ma un’adesione reale agli obiettivi che il sindacato si stava ponendo. Non c’è dubbio che questa saldatura e la lotta dell’autunno caldo furono l’humus, l’antefatto e la spinta determinante per ottenere lo Statuto dei lavoratori.

Oggi si torna a dire “lavorare tutti e lavorare meno” e ci troviamo in uno spartiacque. Si dice anche che dopo la pandemia non tutto sarà come prima, io nutro qualche dubbio sulla effettiva capacità di cambiamento perché esistono enormi sacche di cattiveria e arretratezza eppure se vogliamo davvero cambiare qualcosa e farlo in profondità sono convinto che occorra mettere in campo un nuovo modello di sviluppo. Il ruolo attribuito al lavoro deve essere completamente diverso non solo dal punto di vista dell’organizzazione ma anche rispetto alla questione fondamentale dei tempi di lavoro. Per questo quell’antico slogan è assolutamente attuale. I tempi, ad esempio, sono essenziali e strategici per affrontare non in modo retorico e vecchio-emancipazionistico la questione femminile ma anche per dare peso alla diversità femminile, riconoscendo che il nostro sistema produttivo è stato fondato sulla centralità dell’uomo-maschio e permettendo finalmente alla donna di assumere pienamente la sua funzione nella vita sociale e politica del Paese. Non basterà stanziare soldi, né tantomeno farlo per ricostruire le vecchie strutture e i vecchi sistemi, quello che serve è, come accadde in quegli anni, una nuova visione e una concezione dello sviluppo che superi il totem del prodotto interno lordo a favore di altri obiettivi come la felicità e il benessere delle persone.