Il virus dell’austerity ha ucciso la nostra sanità

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Il coronavirus ha fatto una prima e autorevole vittima: il mito del nostro servizio sanitario pubblico, da sempre considerato nostro fiore all’occhiello e tra i migliori al mondo, che in questi giorni sembra sgretolarsi.

Secondo la ricerca dell’agenzia Bloomberg, che ha valutato la salute della popolazione in 169 Paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità – sulla base di diversi fattori come la speranza di vita, l’accesso alle cure, i fattori comportamentali della popolazione e quelli ambientali- nel 2019 l’Italia si attesterebbe al secondo posto della classifica, superata dalla Spagna e perdendo il primato assoluto che aveva nel 2017. Questa posizione fa il paio con quella sull’aspettativa di vita alla nascita nel nostro Paese: 83,1 anni, al secondo posto nell’Unione europea, anche qui dopo la Spagna.

Se leggiamo i dati della ricerca condotta da OECD e UE ci accorgiamo di come gli italiani abbiano abitudini di vita più virtuose, con un tasso di obesità che, seppur aumentato negli ultimi anni, si attesta all’11% rispetto a una media UE del 15%, e una tendenza al consumo regolare di alcool pure di gran lunga inferiore rispetto agli altri europei. Dunque abbiamo abitudini di vita più sane, un clima favorevole e siamo meno soggetti ai fattori di rischio: gran parte del risultato, per una volta possiamo dirlo, è merito nostro!

La tabella sottostante mostra come l’Italia presenti tra i tassi più bassi di mortalità prevenibile e trattabile più bassi d’Europa. “Il basso tasso di mortalità prevenibile“, spiega la ricerca, “è frutto delle percentuali ridotte di mortalità per cardiopatie ischemiche, tumore al polmone, decessi accidentali, suicidi e malattie connesse al consumo di alcolici, che si attestano a livelli ben al di sotto delle medie dell’UE, grazie a una diffusione più limitata dei fattori di rischio e a una minore incidenza di questi problemi di salute“.

Ma cosa è accaduto in questi ultimi anni al nostro servizio sanitario pubblico?

Esattamente ciò che è avvenuto al resto del sistema pubblico italiano, da oltre due decenni a questa parte: tagli e sforbiciate in nome dell’austerity, del contenimento dei costi per cercare di tagliare il debito, senza nessuna considerazione per l’evidenza che tali misure sono non solo inefficaci, ma anche deleterie, addirittura nefaste rimanendo in termini clinici.

Nel periodo che va dal 2010 al 2019 il finanziamento pubblico è stato decurtato di oltre € 37 miliardi: tagli alle strutture ospedaliere, ai posti letto, al numero di personale medico, per non parlare della ricerca, dove il nostro investimento è davvero irrisorio. In termini assoluti il finanziamento pubblico in 10 anni è aumentato di appena € 8,8 miliardi, non riuscendo neanche ad adeguarsi alla crescita, già bassa, del tasso dell’inflazione

Tra il 2009 e il 2018 l’incremento percentuale della spesa sanitaria pubblica si è attestato al 10%, rispetto a una media OCSE del 37%, dato che avvicina l’Italia ai paesi dell’Europa orientale, mentre aumenta il divario con Stati come la Francia e la Germania, la cui spesa sanitaria pro-capite è addirittura il doppio della nostra.

L’emergenza coronavirus che stiamo vivendo in questi giorni ha scoperchiato il vaso di Pandora: mancano medici, infermieri, posti letto, reparti… Sono le vittime dei tagli imposti dall’economia dell’austerity e del liberismo dissennato, che sacrificano la salute pubblica ai calcoli contabili. Ma, come si suol dire, oltre il danno c’è la beffa: i conti infatti non tornano, perché l’equazione che si applica è sbagliata. Quando infatti un’economia si trova ad affrontare una crisi economica dal lato della domanda come quella che stiamo attraversando noi, ridurre la spesa pubblica produttiva vuol, dire aggravare lo stato di crisi, generando disoccupazione e conseguente calo dei consumi e dalla produzione in un circolo vizioso che si autoalimenta.

A riprova di questa evidenza è la pubblica ammenda fatta dal FMI sulla gestione del caso greco, dove il primo a farne le spese è stato il settore sanitario. A supporto dell’operato della Troika nel paese ellenico, il FMI sosteneva che il cosiddetto moltiplicatore fiscale relativo alla spesa pubblica fosse pari a 0,5: dunque, secondo le sue stime, a un taglio della spesa statale sarebbe dovuta corrispondere una crescita del Pil. Di fronte ai fallimenti conclamati l’istituto di Washington ha chiesto ai propri economisti di ricalcolare questo indice e si è scoperto che era inficiato da un errore: il suo valore era maggiore di 1, quindi ogni taglio avrebbe prodotto una perdita. Studi economici provano come tale indicatore abbia valori particolarmente elevati proprio nella sanità, dove applicare l’austerity in tempi di crisi rappresenta una scelta folle dal punto di vista economico, con effetti negativi sul Pil e aumento del debito.

Tagliare sulla spesa sanitaria significa mettere a repentaglio la salute dei cittadini e la capacità della rete ospedaliera di affrontare obiettivamente uno stato d’emergenza, senza cadere nella psicosi collettiva, che può essere una bomba economica e sociale più letale di un virus. Al contrario di quanto è stato fatto finora, questo è il tempo di investire sulla ricerca e sul potenziamento del settore sanitario, che deve rimanere la nostra eccellenza.

Ilaria Bifarini