“Ilva va spenta”. Acciaio italiano a un passo dall’estinzione

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Venerdì si è compiuto l’ennesimo balletto giudiziario sul corpo martoriato dell’Ilva. Il consiglio di Stato non ha voluto concedere la sospensiva alla decisione del Tar di spegnere le attività a caldo dell’acciaieria.
Invitalia pigliatutto

Quella che fu l’azienda siderurgica più importante d’Europa, comprata dai Riva surclassando l’offerta dei Lucchini, che impiegava 23mila dipendenti e fatturava più di dieci miliardi di euro (dati 2011), è di fatto morta. E tra poco ritornerà, come un cadavere, nelle mani dello Stato. Invitalia, sì quella di Arcuri per intenderci, si è già beccata 400 milioni pubblici per sfilarla alla cordata ArcelorMittal, oggi in affitto, e che non vede l’ora di scappare. Male che vada, il gruppo franco-indiano ha un concorrente, anzi il concorrente più tosto, fuori gioco. Per sempre.

Vedremo come il governo Draghi riuscirà a gestire il dossier più complesso che si è ritrovato sul tavolo: il più pericoloso, per le sue dimensioni economiche e sociali, e il più arrugginito, per i tempi (quasi dieci anni) che ha consumato.

Nel frattempo un processo eterno ha visto arrivare al suo primo atto le richieste di condanna incredibili della Procura. Non solo i quasi trent’anni per i Riva superstiti, ma anche i cinque per Nichi Vendola e la bellezza di diciotto anni per il prefetto Bruno Ferrante, che prese le redini dell’azienda per pochi mesi all’apice della vicenda giudiziaria. La richiesta dà il senso della bolla in cui ci troviamo: non dico uno stupratore, ma anche un assassino incensurato oggi non si becca una richiesta simile.
Ex Ilva, solito accanimento giudiziario

Quello contro l’Ilva è un accanimento giudiziario da far accapponare la pelle. È molto probabile che nessun giudice accoglierà queste richieste. Ma il danno è fatto. Così come quando sequestrarono miliardi di laminati nel porto come prova del reato. Così come decine di volte sono stati chiesti adempimenti mortali, chiusure dei forni, revamping non necessari.

Tocca ricordare che nessuna condanna, anzi numerose assoluzioni hanno riguararcudato la famiglia. Tutto si basa su una perizia che cinque anni di udienze hanno smontato. Decideranno i giudici, è chiaro. Ma altrettanto chiaro è che la fine dell’Ilva è la fine di un pezzo fondamentale della nostra industria e della nostra meccanica. Con l’Ilva gettiamo al vento competenze, mercati e tra poco quattrini dei contribuenti. Il rischio è che si ripercorra il modello Bagnoli, dove abbiamo bruciato centinaia di milioni senza bonificare nulla.