“Io, Teresa Bellanova”. Intervista di Tommaso Labate

0
56
bellanova
bellanova

All’aeroporto di Casablanca, consegnato alla leggenda da Humphrey Bogart e Ingrid Bergman che si dicono addio sulla pista d’atterraggio, un giorno del 1989 arriva dall’Italia un aereo con a bordo la passeggera Bellanova Teresa. Se la love story Bogart-Bergman del film Casablanca finiva lì, quella che ha per protagonista nella realtà l’esponente di Italia Viva lì comincia.

«A Casablanca, in Marocco, si teneva un importante congresso del sindacato del tabacco. La Federbraccianti, dove lavoravo all’epoca, mandava una sua delegazione ma io non dovevo farne parte anche perché avevano scelto dei delegati che parlassero il francese, che io non conoscevo. Una delle persone dovette rinunciare e così all’ultimo minuto scelgono di mandare me. Ha presente i problemi di un viaggio organizzato in fretta e furia?».

La valigia, i documenti…
«Esatto. Il passaporto non ce l’avevo. E poi c’era il problema della lingua, visto che non conoscevo una parola di francese. L’organizzazione provvede a tutto, in tempi rapidi. Appena atterrata a Casablanca ad accogliermi, oltre alla delegazione del sindacato marocchino, c’è questo giovane interprete, figlio di un importante dirigente del monopolio nazionale del Marocco».

Si chiama Abdellah El Motassime. Sarebbe diventato suo marito.
«Ci conosciamo, rimaniamo in contatto, io vado in Marocco per le vacanze ad agosto, stiamo insieme. Io però gli dico che non avrei voluto lasciare l’Italia, la battaglia politica per i braccianti e tutto il lavoro fatto nella Cgil per trasferirmi in Marocco. Qualche mese dopo, il 28 dicembre del 1989, tornerà in Italia con un biglietto di sola andata per stare con me».

Il lieto fine che manca a Casablanca in questa storia c’è.
«sì ma è stata dura, soprattutto per lui. L’Italia non aveva e non ha alcun accordo col Marocco, per cui tutti i titoli di studio che aveva sono finiti in carta straccia. Abdellah ha lasciato una posizione di privilegi e una carriera già avviata per ricominciare lontano da casa sua insieme a me, senza poter fare affidamento su nulla. In Puglia ha ricominciato a studiare, partendo dalla licenza media. Non abbiamo mai chiesto favori, abbiamo vissuto con il mio lavoro. Qualche tempo dopo sono rimasta incinta del nostro gioiello, Alessandro».

La licenza media è uno snodo ricorrente nella vostra famiglia. Suo marito ha ricominciato da lì, lei lì aveva terminato gli studi.
«Non ho conservato un ricordo dell’ultimo giorno di scuola perché non era detto che lo fosse. Avrei dovuto iscrivermi alle superiori ma dopo gli esami di terza media mia mamma si ammala e, con mio papà in Svizzera a finire di pagare le cambiali del terreno in cui aveva iniziato a lavorare da mezzadro, devo badare a lei e al resto della famiglia».

Dalla scuola ai campi. Biglietto di sola andata.
«Sveglia all’alba, turni di lavoro interminabili, fino al tramonto. Diritti zero».

Gli sfruttatori hanno avuto la possibilità di vederla ministra della Repubblica?
«No. Non conoscevano nemmeno la mia faccia o il mio nome. Per loro eri un numero, punto. Entro nel sindacato abbastanza presto, mi occupavo delle condizioni delle lavoratrici dell’uva da tavola nelle aziende del Sud-Est del Barese. Un lavoro che conoscevo. Nei magazzini, per dire, avevo lavorato all’incassettamento dell’uva destinata soprattutto all’esportazione. Tutta la vita concentrata in pochi metri quadri: la frutta, le cassette, i letti del dormitorio e un fornello per cucinarsi qualcosa, tutto assieme. Non era detto che quello fosse il mio destino, sia chiaro. Pensi che mio papà voleva diventare carabiniere per avere uno stipendio sicuro con cui mandare avanti la famiglia».

Come mai non ci era riuscito?
«Perché era comunista. A Ceglie Messapica, il paese da cui provengo, la Dc prendeva oltre il 6o per cento. Gli fu fatto intendere che a fare il concorso per entrare nell’Arma avrebbe solo perso tempo. Sono diventata comunista anche io».

Lo rivendica ancora oggi?
«Con orgoglio. Il Pci, insieme al sindacato, è stato fondamentale per la mia formazione. La domenica c’era la lettura collettiva di Rinascita, dell’Unità, del Corriere della Sera: gli articoli venivano spiegati e commentati agli iscritti e ai militanti».

La folgorazione sulla via di Renzi?
«Non fu una folgorazione. Entro nel governo Renzi come sottosegretaria indicata dalla minoranza del Pd, visto che al congresso avevo portato avanti la candidatura di Gianni Cuperlo. Matteo non ha mai badato al fatto che non ero stata una sua sostenitrice. Senza questo atteggiamento, che purtroppo non c’è stato nel governo Conte, non avremmo raggiunto obiettivi incredibili come la legge sul caporalato».

La dimissioni sue e di Elena Bonetti hanno innescato la caduta di Conte e l’arrivo di Draghi. Ma in quella conferenza stampa ormai consegnata alla storia del decennio parlò di fatto solo Renzi.
«Come è andata veramente? Matteo ci chiede di intervenire per prime. E noi: no, introduci tu. Nessun atto di prepotenza, anzi. Forse sono stata poco lucida io in quel momento: avremmo dovuto parlare di più, o quantomeno iniziare noi la conferenza stampa come ci aveva chiesto. Avremmo evitato che, dopo, si parlasse solo di questo e non dei motivi che ci avevano spinti a dimetterci».

L’abito blu elettrico del giorno in cui aveva giurato da ministra, che fece discutere tutti, ce l’ha ancora?
«Io amo quel vestito. Certo che ce l’ho, usato una sola volta, quel giorno. Anche qui, fu merito o colpa della fretta. I giornali avevano scritto che sarei diventata ministra anche dopo le dimissioni di Federica Guidi, anni prima. Io dicevo “guardate che non succede”, infatti non era successo. Poi, quando nasce il governo Conte, stessa storia. I giornali lo scrivono, io non ci credo».

Ma con finale diverso.
«Chiama Renzí. “Teresa, dove sei?”. “A Lecce”, rispondo, “perché?”. E lui: “Ma che ci fai a Lecce? Corri a Roma, devi giurare da ministra”. Mi precipito con Abdellah, entriamo in un negozio per comprare in fretta e furia un vestito ed eccolo là, lo vedo e me ne innamoro».

Il vestito blu elettrico.
«Sì. “Abdellah, che ne dici?”. A lui piace, a me anche. Però mi sta largo, le maniche andrebbero sistemate ma tempo per fare correzioni sartoriali non ce n’è. “Vabbe’, lo metto così com’è”. Il resto lo conoscete».