Iori: Contro violenza e femminicidi partiamo dalla pari dignità di genere

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Ogni nuovo episodio di cronaca di violenza sulle donne, l’ultimo in ordine di tempo il brutale omicidio di Clara Ceccarelli a Genova, ci lascia muti e sgomenti.

Ogni aggiornamento dei dati statistici impressionanti, che l’isolamento forzato ha reso ancora più drammatici, ci conferma che questo orrore di aggressività fisica, psicologica e sessuale è in aumento, che i maltrattamenti domestici si moltiplicano, che la maggior parte dei femminicidi sono commessi da uomini che avevano un legame sentimentale con la vittima e vivevano con rabbia cieca e inaudita la separazione e la rottura sentimentale.

Ma di quali sentimenti stiamo parlando? Cosa si nasconde dietro l’orrore osceno di questa violenza che si fonda sul possesso e il dominio?

La differenza di genere, per non diventare discriminazione e violenza, ha bisogno di esprimersi entro una pari dignità e uguaglianza di diritti e di riconoscimento reciproco. L’uguaglianza non è omologazione ma il requisito indispensabile per esprimere le differenze.

Il primo nodo da esaminare è proprio quello dell’analfabetismo emotivo, l’incapacità di dare nome a ciò che si prova, di elaborare il proprio le proprie pulsioni dentro a una dinamica di consapevolezza e di assumere la responsabilità dei comportamenti conseguenti. In questo senso, se la prima emergenza è combattere i costi umani, sociali, e anche economici della violenza sulle donne, far applicare le leggi, potenziare i centri antiviolenza, accompagnare le vittime verso percorsi di autostima e coraggio, la seconda riguarda la capacità di mettere in campo azioni durature basata sulla prevenzione.

Per combattere questa violenza è necessario partire da un grande e articolato investimento educativo, che coinvolga la scuola fin dall’infanzia; dall’uso delle parole alla scelta dei libri di testo, dai giochi allo sport, dalla scelta degli studi all’impegno sociale, per far crescere bambine e bambini nel rispetto delle differenze di genere, delle pari dignità, dell’altrui forza e fragilità che devono essere sentimenti compresi e riconosciuti.

Si impara anche ad amare. Si impara anche a scuola -nel contesto sociale delle classi- a misurare i propri sentimenti a comprendere le reazioni alle emozioni, a gestire il fallimento, a riconoscere l’altro da sé, nel pieno rispetto di ogni differenza.

È del tutto evidente che crescere con stereotipi sessisti e in mezzo ai pregiudizi discredita la stima nelle donne in quanto persone, penetra nelle relazioni familiari, nei rapporti di lavoro, nei percorsi di carriera. È dunque prioritario lavorare su due obiettivi: l’educazione socio-affettiva e l’educazione alla corporeità. “Assumete la responsabilità di voi stesse”: questo la scuola dovrebbe insegnare alle ragazze per favorire lo sviluppo di un autentico ‘progetto di sé’, in un sistema patriarcale che le svaluta, le umilia, le ferisce. Dove la violenza verbale, l’hate speech sui social, aprono la strada anche alla violenza sul corpo. Ed è arduo contrastare l’immaginario, specchio deformante alimentato dai media, che spinge ad esibire un corpo ridotto a oggetto, strumento di desiderio, possesso di qualcun altro. Il rischio è che le ragazze siano espropriate del vissuto del proprio “essere un corpo”.

Assumere la responsabilità del proprio corpo-persona significa insegnare alle ragazze che anch’esse possono tutto e che nulla è loro precluso. Educare alla dignità del corpo femminile fa quindi parte dell’educazione alla differenza nel cammino di crescita verso l’autenticità. Ma per arrivare a questo occorre che innanzitutto gli educatori siano convinti del valore femminile.

E si tratta di un compito non facile, che parallelamente riguarda anche lo stereotipo maschile: i bambini possono imparare da educatori autorevoli che si può essere ugualmente ‘virili’ senza uniformarsi al modello tradizionale della forza fisica, della durezza e della competitività. È tempo di insegnare anche ai ragazzi che per esempio la tenerezza può essere una grande virtù maschile e non certamente una debolezza.

La conclusione politico-pedagogica è quindi un apparente paradosso: essere uguali per poter essere diversi. Il valore dell’uguaglianza resta irrinunciabile, perché senza pari dignità ogni differenza rimane opposizione-inferiorità-dipendenza. Educare alla reciprocità è dunque l’investimento da cui ripartire.

Avviare nuovi comportamenti, valori e modalità di comunicazione dove l’incontro con l’alterità di genere si ponga come luogo del ‘noi’, in un rapporto autentico, libero da maschere e finzioni, con l’altro sesso, in cui sia possibile per le donne e gli uomini parlarsi e ascoltarsi da un tu ad un altro tu, in una differenza dove la contrapposizione che caratterizza i rapporti tradizionali possa tradursi in uno scambio arricchente e rispettoso delle reciprocità.