Iraq allo sbando dopo 400 morti in piazza e le dimissioni del premier

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Secondo il canale televisivo libanese al-Mayadeen, che cita fonti irachene, ieri pomeriggio 5 razzi hanno colpito l’importante base aerea statunitense di Ain al Asad, nella provincia occidentale irachena di al-Anbar, non ci sarebbero vittime. Ain al Asad è la seconda base aerea dell’Iraq dopo quella di Balad ed è il quartier generale della Settima divisione dell’Esercito iracheno.

E’ la dimostrazione del fallimento della confusa operazione di 2controllo” dell’Iraq dopo le q guerre petrolifere statunitensi alle quali ha partecipato (e partecipa) anche l’Italia e che in Iraq si è creata una situazione insurrezionale della quale sono protagonisti i giovani – sia sciiti che sunniti – che è già costata centinaia di vittime, che non ha nel mirino solo l’ingerenza iraniana in Iraq, ma anche quella occidentale e che apre la strada a ritorni sia di forze oscure, come i vecchi quadri del partito Baath di Saddam Hussein – che hanno sempre operato nel Paese dopo la caduta della dittatura, che delle cellule rimaste dello Stato Islamico/Daesh che era arrivato a Mosul e quasi fino alle porte di Bagdad.

Continuano comunque le proteste anti-iraniane e il primo dicembre è stata assaltato per la seconda volta il consolato iraniano di Najaf, nell’Iraq meridionale-. Secondo il canale in lingua araba della TV iraniana Al-Alam in lingua araba «domenica sera gli assalitori che coprivano il volto con una maschera e secondo le testimoni locali non erano residenti di Najaf, hanno preso d’assalto e bruciato il consolato iraniano in questa città santa. Secondo le autorità irachene tali attacchi mirano a creare scissione tra i due Paesi vicini».

Il 2 dicembre la Camera dei rappresentanti, il parlamento monocamerale iracheno, ha accettato le dimissioni del primo ministro, Adel Abdul-Mahdi, che il 29 novembre aveva deciso di lasciare il suo incarico a causa delle durissime proteste in corso in Iraq e all’appello dell’ayatollah Ali al Sistani, massima autorità dell’Islam sciita iracheno, che chiedeva ai deputati di sfiduciarlo. Ora il presidente della Repubblica, il kurdo Bahram Salih, dovrà nominare entro 15 giorni il nuovo primo ministro che – entro 30 giorni – dovrà ottenere la fiducia con 164 voti, cosa difficilissima con un Parlamento diviso per Partiti settari ed etnici a loro volta divisi in fazioni nemiche (e spesso armate). SE il nuovo governo non ottenesse la fiducia, il presidente Salih avrà altri 15 giorni di tempo per incaricare un altro premier e se non ci sarà una nuova maggioranza, sarà lui ad assumere anche la carica di premier reggente, cosa impensabile per un kurdo in un Paese a maggioranza sciita e che fino alla caduta di Saddam Hussein era stato dominato dai sunniti.

Nonostante i giovani dicano che la loro rivolta non è settaria e che nasce dalla protesta per la corruzione dilagante, il furto delle risorse petrolifere nazionali, le occupazioni straniere, nella politica irakena le divisioni religiose contano molto e lo ha ammesso lo stesso Mahdi quando nel comunicato nel quale annunciava le sue dimissioni, citando un passaggio chiave dell’appello di Al Sistani al Parlamento, ha scritto: »Ho ascoltato molto attentamente il discorso della suprema autorità religiosa».

Ieri, intervenendo al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Jeanine Hennis-Plasschaert, l’inviata dell’Onu in Iraq, ha avvertito che «La repressione delle manifestazioni pacifiche da parte delle autorità non può costituire una strategia. Bisogna ascoltare la frustrazione e la collera espresse dai manifestanti.

Secondo la Hennis-Plasschaert il movimento di contestazione che scuote l’Iraq dal primo di ottobre «E’ dovuto a un accumulo di frustrazione riguardante una mancanza di progressi da numerosi annii».

I manifestanti, che sfidano apertamente la polizia e le milizie confessionali e dei Partiti (che spesso sono la stessa cosa) denunciano l’incompetenza e la corruzione dei leader politici e le decadenza dei servizi pubblici essenziali in un Paese che nuota letteralmente su un mare di petrolio e gas ormai nelle mani delle multinazionali straniere e di una classe politico7religiosa corrotta e rapace.

La Hennis-Plasschaert ha sottolineato che questi giovani disperati e pronti a farsi ammazzare «chiedono che il loro Paese possa realizzare tutto il suo potenziale a vantaggio di tutti gli irakeni. Questi giovani non hanno nessun ricordo del carattere orribile della vita per molti irakeni al tempo di Saddam Hussein. Però sono molto coscienti della vita promessa dopo Saddam Hussein».

L’inviata dell’Onu ha ricordato al Consiglio di sicurezza che «In questi ultimi due mesi sono state uccise più di 400 persone e più di altre 19.000 sono state ferite nel quadro del movimento di contestazione. I manifestanti sembrano determinati a perseverare per tutto il tempo in cui le loro richieste resteranno ignorate. La situazione non può essere risolta dalle autorità irakene guadagnando tempo con misure puntuali e utilizzando la repressione. Questo approccio non farà che alimentare maggiormente la collera e la sfiducia tra la popolazione. Perseguire interessi di parte o la repressione brutale di manifestazioni pacifiche non costituiscono delle strategie. Ma l’Iraq non è una causa persa e da questa crisi potrebbero emergere nuove possibilità. La sfida consiste nel cogliere queste opportunità e costruire uno Stato sovrano, stabile, inclusivo e prospero in Iraq. E’ arrivato il momento di agire. La speranze immense di molti irakeni chiamano a una riflessione audace e volta al futuro».

L’Iran, nel mirino dei manifestanti accusa altri Paesi di voler destabilizzare l’Iraq: «E’ chiaro che Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e sullo sfondo Israele, che sono le menti di questi giorni di disordini e instabilità in Iraq, vogliono che la situazione attuale prosegua e che persino il Parlamento iracheno venga prosciolto – scve l’agenzia ufficiale iraniana Pars Today – Gli attuali membri del Parlamento, infatti, non opteranno per un nuovo premier filo-statunitense e per questo, è prevedibile che le proteste ed il caos proseguano per mettere pressione al Parlamento di Baghdad. In queste condizioni, sembra più che mai pesante la responsabilità dei politici iracheni che mettendo da parte le divergenze, devono cercare di impedire che la loro nazione cada in una situazione di totale vuoto di potere».

Teheran, che ha appena duramente represso manifestazioni contro il carovita e i costi umani ed economici della partecipazione dell’Iran alla guerra sirana (e irakena) teme un contagio ancora più forte. «Gli organizzatori degli attuali disordini in Iraq, non a caso hanno cercato di introdurre tra gli slogan delle proteste, anche l’Iran – si legge ancora su Pars Today – È chiaro che la popolazione irachena, per il 60% sciita e per lo più imparentata con la popolazione iraniana, non può nutrire odio per la nazione vicina; Teheran è stata l’unica capitale islamica ad aiutare militarmente gli iracheni negli anni di battaglia contro l’Isis, ed è il principale partner economico di Baghdad. Gli Stati Uniti, che ritengono una minaccia per la loro influenza la collaborazione dell’Iraq con l’Iran, stanno cercando di colpire anche questo aspetto, attraverso le rivolte».

In realtà i manifestanti sono sia sciiti che sunniti e chiedono anche la fine dell’occupazione statunitense e che tutte le truppe straniere abbandonino l’Iraq, restituendo agli irakeni le risorse delle quali si sono appropriati.

Comunque, anche secondo Par Today «La classe politica irachena, che ora deve dare la risposta. Gli sviluppi dei prossimi giorni serviranno a capire se il fronte guidato dagli Usa, dopo le dimissioni di Al Mahdi, otterrà pure il proscioglimento del Parlamento, o sarà quest’ultimo a designare il futuro della nazione, utilizzando i poteri democratici conferitigli dalla Costituzione».

Teheran si allinea ancora di più con Russia e Cina – il 27 dicembre i tre Paesi effettueranno un’esercitazione militare congiunta nell’Oceano Indiano – ed evoca anche i disordini a Hong Kong, nel Xinjiang e nei Paesi dell’ex Unione Sovietica quando sottolinea che quello in Iraq «Sarà uno scrutinio importante anche perché rivelerà se gli Stati Uniti, che sul piano militare e politico sono stati sconfitti nella regione, sono ancora in grado di cambiare a proprio favore gli equilibri nelle nazioni, grazie a rivolte, rivoluzioni colorate e sommosse la cui dinamica è ormai ben nota, in tutto il mondo».

Pars Today semplifica e riduce le rivolte popolari mediorientali a pure manovre di ingegneria geopolitica: «Anche in Libano, altra nazione considerata nella sfera d’influenza di Teheran, si sta sviluppando una situazione simile, e i criminali comuni che guidano le proteste violente, hanno inserito negli slogan dichiarazioni contro Hezbollah, che a detta di sostenitori e nemici di questa formazione, è e rimane il principale partito libanese e il più impegnato nel sociale, a favore dei ceti bisognosi. Anche lì, è chiara la presenza della regia statunitense».

Una tesi che permette a Teheran di spiegare con l’ennesimo complotto anche le proteste interne. «Persino in Iran, nelle settimane scorse, c’è stato un tentativo simile, fallito miseramente in 48 ore, e solo in questi giorni, l’arresto di individui coinvolti nelle azioni violente, che erano in collegamento con la Cia, sta confermando ulteriormente che si tratta di un grande piano destabilizzante».

Ma così non si affrontano le reali questioni messe violentemente sul piatto della storia dalle proteste di popolo in Iraq, Libano e Iran, che sono poi le stesse che, ignorate e represse in Siria e Yemen, hanno portato guerre infinite, all’infiltrazione jihadista, alla guerra etnica, alle invasioni turca e saudita, a milioni di profughi e a sofferenze infinite.

Chiudere gli occhi e tapparsi gli orecchi di fronte alle rivolte e alle sofferenze di popoli interi, come hanno fatto e continuano a fare Occidente e Oriente in Medio Oriente, mettere gli interessi petroliferi e geopolitici davanti a quelli dei popoli, porta solo al sanguinoso disastro al quale stiamo assistendo da anni.