JOKER, DI TODD PHILIPS

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Joker non è un film più violento di molti altri film che da anni vengono dati in pasto senza particolari remore a ragazzi e ragazzini. E allora perché qualche critico si dice indignato dall’eccesso di violenza e alcuni membri dell’Academy cavalcano quest’onda boicottando la proiezione?

Perché Joker contiene violenza politicamente scorretta, che deriva non dalle necessità commerciali del solito film all’americana, nel quale il cattivo di turno si mostra agli spettatori come contenitore di una malvagità fine a se stessa e divertente nella sua leggerezza, ma dallo sviluppo coerente della trama. Una violenza che si rende socialmente comprensibile da chi osserva con gli occhi del popolo abbandonato, oppresso e impoverito e che emerge carsicamente e all’improvviso, bucando il muro di gomma del politicamente corretto di cui lo stesso protagonista, rappresentante delle fasce sociali più emarginate, era intriso. Qui risiede un tema centrale del film: non sono solo e tanto le classi dominanti ad interiorizzare il politicamente corretto, ma soprattutto gli sfruttati, complice la potenza pervasiva dei media e dei programmi di intrattenimento televisivo di cui il disperato protagonista si nutre ogni sera insieme alla madre, in una casa fatiscente dei sobborghi di Gotham. Un’evasione dalla realtà dei rapporti sociali che in realtà trasferisce quei rapporti oppressivi anche nella sfera psicologica individuale. È per questo che Arthur, prima di diventare Joker, sposa una filosofia del sorriso e della non violenza che non risponde certo agli interessi della sua classe, ma allo status quo.

Il film è la parabola di una coscienza popolare che si libera progressivamente dalla prigione invisibile che è la narrazione dominante. Il candidato sindaco, papà del futuro Batman, si propone come ennesimo salvatore di una Gotham City allo sbando, vendendo la solita visione del mondo: da una parte i meritevoli, coloro che producono ricchezza, dall’altra i degradati che protestano, uccidono e tolgono decoro alla città e che possono essere risollevati solo dal loro merito individuale, agevolato da un programma di tagli alla spesa sociale che apre le porte alla concorrenza nuda e cruda, foriera sì di diseguaglianze fortissime ma anche di ricompense per chi è capace di mettersi in gioco e guadagnarsi il successo da sé.

La violenza di Joker è il rifiuto inconscio e poi sempre più ragionato di questo sistema di dominio materiale e psicologico. Joker uccide fisicamente e metaforicamente prima la madre, maschera che rappresenta la subalternità mentale delle classi popolari aggrappate alla beneficienza degli altolocati, e poi il conduttore del programma televisivo che più lo aveva influenzato nella sua precedente psicologia “buonista”, e che si serviva dei disperati come lui per far ridere la classe media.

È normale che una giuria come quella degli Oscar si mostri turbata di fronte ad un Joker così sovversivo. La composizione di classe di quella giuria è chiara: attori e registi affermati che rappresentano l’élite artistica della società di mercato e che da anni ci propinano polpettoni popolari con lieto fine o al massimo i disagi sessuali e famigliari degli agiati, tutte opere nelle quali gli emarginati o sono completamente occultati o sono comparse funzionali ad esaltare la magnanimità e la superiorità morale del protagonista.

Naturalmente la violenza distruttiva di Joker non può essere la soluzione definitiva per le classi popolari, ma è un passaggio logico comprensibile laddove venga a mancare la mediazione democratica tra gli interessi dei dominanti e quelli dei dominati. È un risveglio che ci si augura sempre rimanga confinato alla dimensione psicologica individuale e che venga incanalato politicamente dai partiti e dalle istituzioni in senso costruttivo. Perché la violenza popolare non sfoci semplicemente nella furia è necessaria però la democrazia, cioè la possibilità effettiva per il popolo di organizzarsi e di influire sull’indirizzo politico della città (e della nazione).

In mancanza di democrazia, tutto è possibile, e anche comprensibile.
nota di Simone Garilli