La caduta dell’impero americano

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La caduta dell’impero americano di Denys Arcand, Canada (Quebec francese) 2018, è una commedia godibile dal punto di vista estetico che mira al contempo a lasciare non poco da riflettere allo spettatore. È, dunque, una commedia impegnata che mira, divertendo lo spettatore, alla denuncia del capitalismo monetario transnazionale. In film è indubbiamente ben confezionato e mira a sfidare i prodotti dell’industria culturale sul loro stesso terreno, proponendo un film che, pur riproducendo il modello di una commedia di successo, mira a sviluppare una critica all’ideologia dominante, che riduce il cinema a merce puramente culinaria e di evasione, proponendosi di mettere in discussione, mediante un linguaggio immediatamente comprensibile a tutti, il pensiero unico neoliberista.

In primo luogo, in modo sempre spassoso, il film rovescia il luogo comune apologetico del sistema sociale oggi dominante ed egemone, che pretende incarnare un modello di meritocrazia, alla base del “mitico”, nel senso letterale del termine, sogno americano. Il protagonista, infatti, con tanto di dottorato in filosofia ha dovuto, sulla base del modello liberista anglosassone, indebitarsi a vita per poter portare a termine gli studi non provenendo da una famiglia benestante. Ciò nonostante si ritrova a fare il fattorino, costretto a recapitare pacchi per una grande impresa, che è in grado di controllare ogni suo movimento durante l’orario di lavoro, per sfruttarlo il più possibile.

Il protagonista è, dunque, il più indicato nello smontare il luogo comune del self made man, mostrando che le persone più intelligenti finiscono, al contrario, per essere le più svantaggiate all’interno del modo di produzione capitalistico, in quanto considerate un potenziale pericolo per il sistema. Quindi il successo e la possibilità di accumulare ricchezze sono, paradossalmente, inversamente proporzionate al quoziente intellettivo posseduto dal singolo. Anche se nei divertenti e arguti sillogismi utilizzati dal nostro protagonista – prototipo dell’antieroe e, quindi, decisamente inattuale in quanto del tutto non conforme al pensiero unico dominante – incontriamo subito una pesantissima caduta di tono. Primo segnale di quanto anche registi come Denys Arcand, considerato un po’ il prototipo dell’odierno intellettuale impegnato mainstream e dell’artista radical sia in realtà privo di una visione del mondo libera, autonoma e antitetica rispetto al pensiero unico dominante. Di cui, per quanto in modo arguto, riproduce già nella prima scena del film uno degli assiomi fondamentali, ovvero la concezione più ideologica dello pseudoconcetto totalitarismo, funzionale a equiparare nazismo e stalinismo, foglia di fico necessaria a porre sullo stesso piano il nazionalsocialismo con il comunismo. Entrambi rappresenterebbero i principali antagonisti delle società aperte, implicitamente liberaldemocratiche, e tale equiparazione delle due ideologie più antitetiche immaginabili diviene funzionale a un’apologia indiretta del modo di produzione capitalistico, nella sua stessa fase avanzata di sviluppo (imperialista).

Si tratta, evidentemente, di un’apologia indiretta in quanto l’intellettuale radical, come dimostra il resto del film, è ben consapevole dei limiti e delle contraddizioni delle società a capitalismo avanzato. D’altra parte, premettendo a queste pur significative e importanti critiche la piena adesione all’assioma di fondo del neoliberismo, per cui non vi sarebbero alternative all’attuale modo di produzione egemone – secondo il solito mantra thatcheriano del there is no alternative (T.I.N.A) – dal momento che l’unica reale alternativa, quella comunista, sarebbe di fondo identica al male radicale nazionalsocialista, il regista presuppone il carattere riformista della sua critica al regime liberaldemocratico. Quest’ultimo, per quanto pieno di difetti, resterebbe comunque preferibile rispetto al totalitarismo di cui sarebbero propugnatori i suoi veri e radicali antagonisti, tanto rivoluzionari quanto reazionari.

Per altro, l’identificazione presupposta allo svolgimento della critica da commedia alla società a capitalismo avanzato – naturalmente mai connotato con il suo reale attributo: imperialista – fra Martin Heidegger, pensatore talmente reazionario da criticare solo da destra il nazionalsocialismo, e Jean-Paul Sartre vero e proprio prototipo dell’intellettuale impegnato antimperialista e rivoluzionario, è essenziale per mostrare la differenza sostanziale dell’impegno del regista.

Quest’ultimo, infatti, può esser considerato a sua volta il prototipo dell’odierno intellettuale impegnato di “sinistra”, radical, nel senso che si pone all’estrema sinistra della società imperialista, che sottopone a una radicale critica dall’interno e non in nome di una società e di un modo di produzione realmente alternativi e antagonisti come faceva Sartre. Anche per questo Sartre, su cui Arcand fa una rozza ironia, con il tipico “cinismo da cretino” – per usare la terminologia marxiana – dell’intellettuale radical, resta su un livello incomparabilmente superiore a quello del suo mero epigono che, per altro, ha fatto il salto della quaglia prendendo posto sul carro del vincitore della guerra fredda. Dimostrando di essere unicamente un vero ignorante, non essendo nemmeno consapevole della sua profonda ignoranza sulle questioni realmente sostanziali (e filosofiche). Non a caso dovendo trattare dalla caduta del capitalismo finanziario – nel caso specifico ridotto, secondo la più becera ideologia postoperaista, al presunto impero americano – Arcand non è in grado di andare al di là della commedia, della satira sociale, dimostrando di non avere le capacità necessarie a cogliere e rappresentare l’aspetto tragico di questo momento storico, dal momento che si è precluso a priori – per il consueto anticomunismo tipico dell’intellettuale borghese – ogni prospettiva catartica, in grado di dare senso all’attuale tragedia storica.

Per il resto la commedia è piena di trovate argute e degne di nota, a cominciare dall’inconsapevole ripresa del geniale paradosso brechtiano per cui il rapinatore di una banca è certamente meno criminale di che ne fonda una nuova. Notevole anche la riflessione sugli apparati repressivi dello Stato borghese che non si dimostrano in grado di bloccare nemmeno una colossale truffa del capitale speculativo, che si svolge nel modo più palese proprio sotto i loro occhi, in quanto hanno tutto il personale impegnato a controllare e, all’uopo, reprimere una pacifica manifestazione studentesca. Inoltre, sebbene di quest’ultima non conoscano nemmeno i motivi, in quanto sono del tutto disinteressati al contenuto e rivolgono il loro interesse unicamente alla forma, ovvero al suo essere una manifestazione di protesta che, in quanto tale, a loro avviso, sarebbe da disperdere immediatamente nel modo più deciso. Da qui la solita critica, inconsapevolmente ripresa da Carl Schmitt, all’arrendevole cedevolezza dello Stato di diritto e della liberaldemocrazia dinanzi alla necessità di annientare il nemico radicale dello Stato, ovvero i suoi critici da sinistra. Notevole anche la superiorità morale del proletario, che si appropria casualmente della refurtiva prodotto da una rapina in una banca, di contro ai rappresentati degli apparati dello Stato al solito impegnati al massimo per difendere la proprietà privata del grande capitale finanziario, senza ovviamente nemmeno domandarsi quante violazioni della proprietà privata dei subalterni la sua accumulazione debba essere costata.

Tutte queste valide, argute e significative critiche dell’attuale società capitalista vengono, però, in larga misura vanificate, dall’assoluta negazione, secondo l’assioma neoliberista, di un qualsiasi spirito di utopia in grado di aprire la strada al principio speranza in una società più giusta e razionale. Del resto, come abbiamo visto, il regista ha subito radicalmente negato la possibilità stessa di un’uscita in senso progressivo reale, in senso rivoluzionario dalla crisi sistemica della società a capitalismo avanzato. A questo punto non resta che l’ingenua utopia socialdemocratica che si batte per un capitalismo speculativo dal volto umano, al cui scopo non è in grado di elaborare niente altro che a un disorganico e molecolare aiuto agli strati più infimi del sottoproletariato, sostanzialmente in funzione sussidiaria a quello portato avanti in modo ben più sistematico e organico dalla chiesa cattolica. Del resto da buon intellettuale radical mainstream Arcand non può che – dimostrando ancora una volta di essere un mero epigono – riprendere gli elementi più deboli e controrivoluzionari della lezione di Herbert Marcuse, per cui la reale classe potenzialmente rivoluzionaria non sarebbe né la proletaria, né tanto meno la classe operaia, che sembra del tutto scomparsa dall’orizzonte dell’intellettuale radical, ma gli strati più derelitti del sottoproletariato e il precario fattorino della gig economy, con una formazione da intellettuale tradizionale alle spalle.

Ecco perché questo film, che porta a compimento la trilogia di cinema alternativo realizzata da Arcand, non poteva che intitolarsi La caduta dell’impero americano. In primo luogo, in tal modo non ci si riferisce alla caduta del capitalismo nel suo stadio superiore imperialista, ma del solo impero americano, ovvero statunitense. Tipica posizione opportunista di chi non critica il reale imperialismo, ma un fantomatico impero, attribuito sempre al principale concorrente del proprio imperialismo, di cui ovviamente non si fa parola. Inoltre scartando a priori, sulla base dello pseudo concetto di totalitarismo, l’unica reale alternativa costruttiva e progressiva, il socialismo, non resta che la caduta dell’impero, ovvero tradotto in termini scientifici – del tutto estranei al distopico regista canadese – occorrerebbe parlare della comune rovina della classi in lotta, che si produce quando la classe potenzialmente rivoluzionaria non riesce a conquistare il potere. Al solito, avendo un ipertrofico pessimismo della ragione e un praticamente nullo ottimismo della volontà – scambiato con il volontariato sussidiario della caritas – manca del tutto al regista lo spirito dell’utopia e lo stesso principio speranza in un mondo più giusto e razionale. Non resta, dunque, che assistere con una, in ultima istanza, macabra ironia a una situazione da tardo impero, in cui la caduta della civiltà capitalistica tende a confondersi – per la sua naturalizzazione sulla base del T.I.N.A. – con la caduta della civiltà umana tout court. Ecco, dunque, che – nonostante la sua attitudine ipercritica – la rappresentazione della attuale società che ci dà il regista è, per quanto inconsapevolmente, un’apologia indiretta del tardo capitalismo, magari del francofono Quebec piuttosto che del modello statunitense.          fonte