La collezione di Joey

0
82

Un bambino tira il suo carretto, pare molto pesante, ci vogliono due mani per farlo ma il suo viso non tradisce fatica, tutt’al più si legge felicità su quelle gote tenuemente arrossate, in quel sorriso sornione, in quell’occhio che ammicca al prezioso carico, un nuovo raccolto decisamente ricco. Se mi piace, lo tengo questo era il suo motto, la pronta risposta a chi gli chiedeva che cosa ne facesse poi di tutta quella roba, la più strana o inutile che potesse esserci, raccolta in angoli reconditi della città, direttamente dalla strada. Mercanzia, ma non per Joseph, per lui erano veri e propri object trouvé. La sua arte si sarebbe espressa più tardi, per il momento la gioia era data dal cercare e trovare, raccogliere e accatastare qualunque cosa scatenasse la sua immaginazione o incantasse i suoi occhi. Quale bambino non coglierebbe da terra un oggetto inusuale per il luogo, fuori contesto per cui ri-immaginabile in altro, pezzo di un gioco ancora da inventare, parte di una collezione infinita o visione di un’opera d’arte, la propria?

Innamorarsi di un sasso e sentire il desiderio di stringerlo con una cordicella, sgranare gli occhi per un cannocchiale malconcio, affascinarsi per una vecchia cassaforte possibile scrigno di inimmaginabili nuovi tesori, accarezzare con lo sguardo una vecchia polverosa scatola e immediatamente avere visioni di mondi altri: una pipa per le bolle di sapone che sputacchia nuvole di spartiti musicali o tossisce conchiglie dalla forma perfetta. Conservare quel resto di bambola abbandonata con negligenza mista a orrore. Salvaguardare ritagli e fogliettini, biglietti d’ingresso al museo scritti a mano, come in un gioco.

Vecchie pentole che non vedranno mai più un fornello, lunghi legni che mai più solcheranno nevi o ghiacci, oramai solo lunghe doghe con un ricciolo accennato in testa. Quanti oggetti il mondo contiene e quanti ne serba celati, quante sembianze può ancora assumere un qualcosa di cui ora ci liberiamo perché non serve più, perché vecchio o rotto, non c’è più affetto per lui se non ne riconosciamo più la sua funzione principale. Il servizio. Ecco cosa faceva Joey. Raccoglieva, cancellava la polvere dalle vecchie cose abbandonate e le guardava con i suoi occhi. Con gli occhi di un bambino, quelli che ha conservato per tutta la vita. Diceva sempre che i più piccoli capivano meglio il suo lavoro grazie alla vivida immaginazione che permetteva loro di vedere la magia.

Ecco allora che accostati e poi assemblati a creare altri oggetti con significati diversi, fuori dal luogo e dall’ordine per il quale erano stati pensati, accostare e incollare collage di quegli avanzi che mai colla avrebbe pensato di attaccare, accostare e scostarsi per guardare solo prima, e poi ammirare compiaciuti quegli oggetti nuovi, quegli object trouvé che sembrava fossero appartenuti gli uni agli altri da sempre.

All’improvviso Joey si rese conto che, scovati e riuniti, quei pezzi parevano stare bene insieme e sembravano arte. Quella con la A maiuscola, scevra da commissioni, spontanea, immaginaria. Quell’arte che scaturisce da un guizzo improvviso che muove le mani e predispone gli occhi a vedere oltre altro.

L’arte di un bambino che cerca per sè e per gli altri quel bello che rasserenando appaga. Quell’arte che ora è chiusa in diversi musei nel mondo insieme ad altra, accostata a movimenti sfiorati ma di cui mai ha fatto parte. Joseph Cornell ha fatto di sè da grande quel bambino raccoglitore che probabilmente è celato in tutti i bambini, mantenendo una visione infantile della meraviglia e facendola propria. Qualcosa di cui sarebbe bello potersi non scordare mai.