La “cultura del sentito dire”, fenomeno bizzarro dell’era di Internet e dei tutorial

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La cultura del sentito dire. L’era di internet e dei tutorial (che fa di ciascuno un esperto del settore, anche se non è il proprio) ha ridotto di molto i tempi di apprendimento e di esecuzione. Possiamo sostituire autonomamente la batteria di uno smarphone, suonare una canzone o realizzare una parete in cartongesso. Il tutto con un innegabile risparmio di tempo, di energie e di danaro. A patto, però, che le eventuali conseguenze negative di tali iniziative rimangano circoscritte nella sfera dell’autodidatta.
Internet e la cultura del sentito dire

Grazie a tali informazioni condensate (i bigini video), si è sviluppato un fenomeno dilagante, accentuato dalla diffusione delle informazioni attraverso i social: “la cultura del sentito dire”. Bizzarro, perché se a seguire questa corrente è un cittadino qualunque, l’interlocutore è legittimato ad ignorarlo o – disponendo degli strumenti – a convincerlo del contrario. Alla peggio a sbeffeggiarlo. Ma se il “cittadino” è anche parlamentare, magari della maggioranza e pure con un incarico governativo, allora il problema si fa serio. Molto serio.

I problemi – di solito – si affrontano analizzando le cause che li hanno generati e, ove possibile, si affrontano con rimedi proporzionati. Principio rispetto al quale non serve una cultura accademica o una specializzazione post-universitaria. Se, tuttavia, i problemi sono complessi e richiedono competenze multidisciplinari i tutorial risultano inadeguati, se non dannosi. Esattamente come la cultura del sentito dire.

Parlare di confisca per equivalente, «più un altro po’», facendo implicito riferimento alle cd. truffe carosello, che non è ciò al quale si assiste, ma ad un’ipotesi delittuosa nota ed aspramente già contrastata dalle vigenti norme di diritto penale tributario, spaventa.

L’argomento, evidentemente, esalta la folla; illude chi, per i noti meccanismi di prelievo alla fonte, non può evadere, facendo loro credere che questa misura possa contrastare e, dunque, limitare il deprecabile fenomeno dell’evasione fiscale. Sarebbe inutile, anche in questa sede, parlare di doppio binario (del processo penale e di quello tributario) e dell’ininfluente pronuncia dell’uno nei confronti dell’altro; è, per contro, opportuno ricordare che l’istituto (la confisca per equivalente) esiste già da tempo e che sia uno strumento complicato, sicuramente da contrastare, per chi è stato colto in flagranza, ma anche e forse soprattutto da applicare; non a caso la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta a più riprese, per delinearne meglio i contorni.

Affidare ad un legislatore sempre più distratto ed improvvisato, il compito di mettere mano a norme già complesse e sulle quali la giurisprudenza delle alte corti, nazionali e sovranazionali, ha suggerito cautela, è obiettivamente impressionante.

Quello che spaventa è la definizione di: «<più un altro po’». Questo cosa rappresenterebbe, una pena, una sanzione aggiuntiva o – come si intuisce dalle parole del Ministro – una forma di risarcimento del danno, che lo Stato, automaticamente preleva, per effetto del contegno fraudolento del contribuente? Senza scomodare i principi costituzionali di “proporzionalità” della pena e di “definitività” della condanna, si potrebbe invocare quello previsto dalle norme comuni sull’indebito arricchimento.

Nulla da dire sui tutorial, ma sulla cultura de relato, si, seppur con la necessaria fermezza nei confronti degli evasori.                                                                                                                                                          fonte  https://www.secoloditalia.it