La Freccia incontra Mario Sechi

0
58

Una bella signora con 70 anni di storia». Esordisce così Mario Sechi, rispondendo alla mia domanda rompighiaccio: cos’è l’Agi? La Freccia lo ha incontrato poche settimane dopo che i vertici di Eni, editore e proprietario di Agi, lo hanno chiamato alla guida della seconda – per dimensioni – agenzia di stampa italiana. Reputandolo il marito ideale, seppur molto più giovane, di questa bella signora. Ma Sechi era già uno di famiglia. Dal 2013 è alla guida di Oil, trasformato in We World Energy Magazine, una rivista in più lingue di geopolitica dell’energia. Poi, con Marco Bardazzi, capo della comunicazione di Eni, ha creato un nuovo progetto editoriale, Orizzonti – Idee dalla Val d’Agri, dedicato al comprensorio lucano nel cui sottosuolo si trova il più grande giacimento europeo di petrolio e gas.

Nell’ultimo editoriale scrive qualcosa che suona come un monito a questo Paese in perenne e irrisolta ricerca di equilibrio e stabilità. «Gli investimenti arrivano dove c’è certezza delle norme. La politica gioca un ruolo di primo piano nella creazione delle condizioni per immaginare prima e fare poi». Sechi, classe 1968, è giornalista di lungo corso, dal Giornale a Libero, dall’Indipendente a Panorama, dall’Unione Sarda al Tempo, di cui è stato direttore dal 2010 al 2013. E dal 2017 cura, insieme alla spagnola Maite Carpio, List, uno spazio multimediale che lui stesso ha fondato e che – come recita l’home page – “pubblica notizie esclusive, contenuti originali, ha una visione a 360 gradi dei fatti del mondo, unisce i puntini, ricostruisce il puzzle, mette ordine nel caos delle news, disegna lo scenario”. Quanto basta per fare, dell’arguto e loquace Sechi, anche un noto commentatore politico televisivo, acuto osservatore degli scenari nazionali e internazionali. Da direttore di Agi intraprende una nuova e appassionante avventura professionale.

Qual è il tuo programma e quali sono gli obiettivi che ti poni?
Buon giornalismo e ricavi, il mio programma è molto semplice, niente di esoterico, nessun fuoco di artificio.

E come si ottengono l’uno e gli altri?
Il primo si ottiene con l’equilibrio e il pluralismo, che è dato dal numero di lanci che dedichi a tutti i soggetti dello spettro politico, quindi dall’apertura che l’agenzia ha verso tutte le opinioni e visioni del mondo. Ovviamente non si pubblica tutto, ma solo ciò che si ritiene importante, come ricorda il motto del [c]New York Times[/c]: “All the News That’s Fit to Print”. Qui entra in gioco la funzione di mediazione e scelta del giornalista e del direttore, che nessun algoritmo potrà sostituire. Qualcuno potrà dire che è un punto di vista, certamente, e va rivendicato, perché è l’intelligenza umana applicata alla selezione dei fatti che veramente conta ed è capace di produrre una gerarchia, un racconto e un linguaggio adeguati. C’è un lavoro certosino dietro ogni lancio di agenzia, perché buon giornalismo significa anche velocità unita ad accuratezza e verifica delle fonti.

E i ricavi?
Per aumentarli bisogna fare un’operazione di diversificazione delle fonti di ricavo, di potenziamento delle news, conferendo appeal al prodotto. I ricavi possono arrivare anche da progetti speciali di comunicazione, in quella prospettiva di evoluzione che contraddistingue un po’ tutte le agenzie di stampa che puntano ad affiancare altre attività al loro marchio.

Nel caso di Agi quali sono?
Premetto che l’attività tipica resta il giornalismo. Anche perché, cosa sarebbero Reuters, Associated Press e la stessa Agi se non ci fossero i giornalisti? Comunque nel corso degli ultimi mesi Agi ha acquisito il controllo di una società che opera sempre nell’ambito editoriale, fa tecnologia e si chiama D-Share. È presente in quasi tutti i gruppi editoriali italiani, e non solo, con una sua efficace piattaforma, un sistema, denominato Kolumbus, per creare e distribuire contenuti digitali per i giornali. Un software che ha sotto un know-how molto importante dal punto di vista dell’esperienza umana, la cosiddetta user experience. D-Share è stata fondata da Alessandro Vento (ex manager di RCS, [c]ndr[/c]) ed è un’acquisizione portata a termine da Salvatore Ippolito, che è ancora il nostro Ad, e da Riccardo Luna, che mi ha preceduto in questo ruolo. C’è poi un’altra divisione della società, Agi Factory, che offre invece prodotti di comunicazione per le imprese. Sono due attività che si affiancano al prodotto tipicamente giornalistico e fanno di Agi una società di contenuti, una media company.

Torniamo al giornalismo. Spira ormai da anni un’aria di crisi per i media più tradizionali, in questa rubrica ne parliamo spesso, e talvolta per conquistare lettori e contatti si cede a compromessi o a scelte discutibili.
È frutto dell’avvento di Internet, ed è il paradosso di Internet. Un grandissimo fenomeno di apertura, universalizzazione e rivoluzione nella storia dell’umanità, ma anche l’occasione di un abbassamento incredibile dell’autorevolezza e del sapere, soprattutto quando sono esplosi i social network. Oggi assistiamo a un dibattito pubblico impoverito dal web, siamo precipitati in una mediocrazia e i social network ne sono in gran parte responsabili. Questo però significa anche che le agenzie hanno un grande futuro e il giornalismo vive un momento eccezionale. Penso che sia in crisi il modello di business, ma che non sia affatto in crisi il giornalismo.

Questo bisogno di buon giornalismo, che condivido in pieno, non sembra però molto avvertito dal grande pubblico…
Alla base c’è un problema di educazione civica, di formazione scolastica. C’è un problema di sapere complessivo e un fraintendimento, perché in tanti pensano che tutto sia informazione e che tutti possano fare i giornalisti. È sbagliato. Come lo è confondere la comunicazione con il giornalismo, due cose nettamente diverse. Il giornalismo è hard e anche soft news, ma offerto con estrema cura e l’interesse principale è quello del lettore e del giornalista verso il suo lettore, nel nostro caso clienti e abbonati. È vero, giornalismo e comunicazione vanno in parallelo in moltissime aziende, ma va preservata la funzione giornalistica. Su questo sono molto categorico, il giornalismo va difeso da tutto e da tutti.

Ad attaccarlo sono i new media, sembra che per fare cronaca oggi basti un buon smartphone.
Ma non è così. Non basta avere una videocamera per essere un buon video-giornalista o una macchina fotografica per essere un grande fotoreporter. Non tutti sono o diventeranno mai Robert Capa, Henri Cartier-Bresson o Ernest Hemingway. L’eccellenza, il sapere e il mestiere sono fondamentali. Se mi dici che c’è poco rispetto di questo sapere nel mondo contemporaneo, ti dico di sì. Ma bisogna farsi rispettare…

Questo scarso rispetto è una componente di una più generalizzata avversione alle élite considerate detentrici di ingiusti privilegi. E i giornalisti ne farebbero parte…
Ma le élite sono necessarie, non esiste governo delle cose umane e, naturalmente, neanche delle aziende, senza élite. L’élite è connaturata all’esistenza dell’uomo, quindi in realtà quello a cui stiamo assistendo oggi prefigura ed è la lotta di una élite che tenta di farsi e sostituirsi a un’altra. Un puro paradosso.

E il giornalista in tutto questo cosa può e deve fare?
Continuare a fare il giornalista e tenere la schiena dritta. C’è chi pensa che la schiena dritta si abbia solo se si parteggia per una parte o per l’altra. Se non si parteggia per nessuna delle due, si possono avere naturalmente le proprie idee, ma si è plurali. Nelle redazioni mainstream, invece, si confonde spesso la propria idea, la propria parte e il proprio desiderio con il fatto.

E forse è anche questo che in molti contestano ai giornali, quello di essere schierati e funzionali a una fazione politica, o agli interessi di lobby potenti.
È innegabile che i quotidiani abbiano oggi bisogno di una forte identità. È chiaro che abbiano un punto di vista molto tagliato. Che Repubblica come La Verità o il Corriere portino avanti le loro sacrosante battaglie e idee. Ne hanno diritto, è necessario e, aggiungo, è un bene che abbiano una loro marcata identità. Noi facciamo un altro mestiere e siamo al loro servizio. L’identità delle agenzie, lo ripeto, è quella di essere aperte, di dare i giusti spazi a tutte le posizioni possibili.

Avere per editore un’azienda come l’Eni non vi pone limiti in questo?
Tutt’altro, essendo un’azienda con una grandissima cultura, una multinazionale, è un vantaggio. Perché capiscono la dimensione particolare dei problemi del giornalismo.

Torniamo a parlare dell’agenzia: come siete strutturati sul territorio?
Abbiamo sedi in tutte le regioni italiane, una a Bruxelles e una a Houston. Abbiamo 72 giornalisti più tutti i collaboratori, insomma una macchina importante con una redazione fantastica, ci tengo davvero a dirlo, perché ho trovato giornalisti davvero bravi, entusiasti del loro lavoro che mi hanno riservato una grande accoglienza e offerto da subito la massima collaborazione.

Ottime premesse per realizzare i tuoi progetti, buon giornalismo e più ricavi…
Certo. Già in queste prime settimane abbiamo lavorato molto al notiziario e interverremo presto anche sul sito. L’impronta nuova è la velocità e lo scoop. Velocità che non può essere a discapito dell’accuratezza. Anche la scomposizione della notizia è importante, come la scelta dei tempi e il modo di lanciarla, con flash soltanto su news importanti. Questo aiuta lettori e abbonati a capire quello che più conta. Curiamo molto anche i titoli della giornata che proponiamo in più edizioni, una ogni due ore. Sto lavorando al sito, che sarà un sito di agenzia e non un giornale. Procediamo spediti sulla via della digitalizzazione. Perché il fatto che io esalti la tradizione non significa che non voglia digitalizzare, tutt’altro. Quando io mi occupavo di modem e digitale eravamo in pochi a farlo. Ho avuto la fortuna di lavorare nel Gruppo Unione Sarda, che è stato pioniere dell’era di Internet.

A tal proposito, la rivoluzione digitale come ha modificato il lavoro giornalistico nelle agenzie di stampa?
Lo ha trasformato profondamente. Basti pensare che un tempo si facevano i cable con le telescriventi, mentre oggi l’intensità e la velocità delle trasmissioni sono incrementate enormemente. Come un forte impulso si è avuto anche sul fronte dello spezzettamento delle notizie, che sono più numerose. Oggi sono oltre mille i lanci giornalieri di Agi e cresceranno ancora, però…

Però?
Non deve mai venire meno l’attenzione al prodotto. Non mi piacciono gli errori, le sbavature. Occorre essere tempestivi, precisi, equilibrati. Per questo punto a controllare tutto.

Un bell’impegno…
Fare il direttore di un’agenzia non è un mestiere consigliabile a chi non ha tempra. Bisogna alzarsi molto presto, andare avanti 12, 14 ore al giorno. Però tutto dipende da come interpreti questo ruolo. Se ti dedichi soprattutto alle relazioni puoi fare una vita anche molto più tranquilla, non dico serena soltanto perché l’aggettivo non porta molto bene. Ma io non sono così. Devo e sento il bisogno di fare il giornalista. È l’unico modo per poter lasciare un buon ricordo professionale quando, arrivato a un certo punto, smetterò, perché non ho certo l’ambizione di essere eterno.

E dopo?
Tornerò in Sardegna a scrivere, libri, cose mie, che è quello che mi interessa e appassiona di più.