La gatta di Letta

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Alla fine Enrico Letta ce l’ha fatta: non è stato eletto, ma solo per poco, all’unanimità. Nel voto segreto a distanza hanno fatto la loro comparsa quattro astenuti e addirittura due contrari. Il nuovo segretario del Partito Democratico è sicuramente consapevole che il suo discorso e i suoi propositi trovano un’opposizione più ampia che, nelle peggiori tradizioni dei democratici, ha preferito nascondersi. Fatti i riconoscimenti necessari al difficile compito che il PD ha adempiuto in questi anni, Letta ha messo la parola fine sulla utopistica “vocazione maggioritaria” affermata da Veltroni e non abbandonata dai successori. Ha detto chiaramente che la politica del partito dovrà essere quella di costruire coalizioni anche con Conte e i Cinque Stelle, ma che escludano Salvini e Meloni. In una democrazia da lui definita malata anche per avere avuto 7 governi in dieci anni, ma, aggiungo io, tutta la storia della Italia repubblicana è malaticcia quanto all’instabilità dei suoi governi, bisogna mirare a una buona legge elettorale e al voto di sfiducia costruttiva che in Germania ha dato esiti altamente apprezzabili. Bisogna anche, senza imporre vincoli di mandato, rendere il trasformismo parlamentare molto difficile e costoso per chi lo pratica.

I cenni al partito da (ri)costruire sono stati pochi, ma precisi, però, a mio modo di vedere, non sufficienti a fare pensare che i capi corrente avranno qualcosa da temere. Quasi tutto il discorso di accettazione della carica ha ruotato intorno ad alcune problematiche di governo, l’Italia che Letta vorrebbe, e agli esempi da seguire, a coloro ai quali deve la sua formazione e impostazione politica. Sottolineata l’importanza del ruolo e dei compiti assolti dalle donne e la necessità del riequilibrio di genere, Letta ha preso a nome del partito che guiderà due importanti impegni. Primo, estendere il voto ai sedicenni e, secondo, fare approvare la legge sullo ius soli, decisiva per garantire la cittadinanza ai figli dei migranti nati in Italia, legge alla quale molto improvvidamente il suo, mai menzionato, successore alla Presidenza del Consiglio rinunciò.

Quanto a coloro che gli hanno dato gli insegnamenti politici più preziosi ha citato sia Romano Prodi, implicitamente dichiarando l’apprezzamento per coalizioni larghe e coinvolgenti, sia Beniamino Andreatta, suo vero mentore che gli aprì la strada ministeriale. Consapevolmente, quindi, Letta si è collocato nel solco della sinistra democristiana, dei cattolici democratici. Stile e contenuto del suo discorso, ma anche la sua stessa carriera politica, compresa la scelta di andarsene e di ritornare, fanno di Enrico Letta un progressista, senza contraddizioni, moderato. Non concluderò dicendo che la strada del PD rimane in salita e neppure che Letta è il segretario dell’ultima spiaggia. Dirò, invece, che Letta si è preso una brutta gatta da pelare. Per sua fortuna, quella gatta la conosce e sa anche che nessuno dei suoi sette predecessori è riuscito a pelarla.