La solitudine dei satelliti, di Silvia Bottani

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Sorveglianza e solitudine sono intrecciate.

Ho visitato alcuni mesi fa la mostra di Kate Crawford e Trevor Paglen intitolata Training Humans, incentrata sui sistemi di apprendimento delle intelligenze artificiali. L’ho osservata con sgomento crescente, scoprendo come il riconoscimento facciale sia stato utilizzato per creare una tassonomia umana a uso delle macchine, per usi militari, polizieschi e politici, poi commerciali, finchè la distinzione tra i campi non è franata. Sorveglianza e atomizzazione individuale, macchine che ci osservano e carpiscono i nostri dati biometrici, i dettagli delle nostre vite squadernate sui social network. Sono le macchine che abbiamo creato per controllarci a vicenda. Sorvegliare è isolare.

Paglen adesso è alle OGR di Torino con Unseen Stars, dove installa tre satelliti “non funzionali”, sculture progettate insieme a ingegneri aerospaziali per orbitare nel cosmo. Nel 2018, l’artista ha lanciato Orbital Reflector, un altro oggetto destinato a orbitare per tre mesi, poi spento a casa di uno shutdown della Nasa. È lassù che viaggia, invisibile ai nostri occhi, senza meta.

Di satelliti naturali è pieno il cielo, hanno nomi poetici come Ananke, Titano, Idra, Europa, Ariel. Nomi che prendiamo dalla mitologia e dalla letteratura e usiamo per battezzare le lune. Nel tempo, abbiamo anche imparato a costruirne di artificiali, e li abbiamo spediti nello spazio. Il primo satellite, una semplice sfera in lega di alluminio, fu lanciato in orbita il 4 ottobre 1957: era lo Sputnik 1 e fu il primo oggetto a compiere l’orbita terrestre. Lo Sputnik 2 venne lanciato il 3 novembre del 1957 e trasportava la cagnolina Laika: non fu l’unico, il programma cosmico dell’URSS annovera numerosi lanci spaziali di cani, ma nessuno fu più celebre e forse più crudele di quello, fantasma che ancora oggi mi perseguita.

I satelliti, come le intelligenze artificiali, sono tecnologie che abbiamo impiegato per studio, per scopi civili e scientifici, ma anche per soddisfare il nostro bisogno di sorveglianza, di controllo e manipolazione. L’arte però inverte questo percorso e crea oggetti senza destinazione d’uso, non funzionali, che dischiudono altre possibilità, altre prospettive. I satelliti di Paglen sono così, nati per diventare temporaneamente stelle, contraddicono la vocazione dei satelliti e non forniscono informazioni, non scrutano né sorvegliano alcunché. Ci ricordano un modo differente di vivere lo spazio.

Ora che i musei sono chiusi dovremo aspettare prima di poter visitare la mostra. I satelliti rimarranno lì, al Binario 1, in attesa. Le nostre solitudini in questo autunno di nuovo isolamento si assomigliano: la mia, la nostra, quella di Laika e di tutti gli cani lanciati inermi nello spazio, e si riflettono in quella dei satelliti di Paglen. Ancora più malinconici, questi oggetti languiscono in attesa di uno sguardo che li metta al centro di una relazione, di uno spettatore che li immagini galleggiare nel cosmo e, per un attimo, si faccia illuminare dalla meraviglia.