La vera falla del Draghi-pensiero

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La vera falla del Draghi-pensiero: sempre statalismo, ma se lo gestiscono i “competenti” va tutto bene
Avatar di Marco Faraci, in Economia, Quotidiano

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Il discorso di Mario Draghi al meeting di Rimini di questo mese è stato visto da molti come una sorta di manifesto per un rinnovamento in chiave “anti-populista” della politica italiana.

È difficile negare, in effetti, che Draghi si presenti con un approccio ed un’estetica “istituzionali” che lo distanziano dalle scelte comunicative dei cosiddetti “populisti” di destra o di sinistra. È anche difficile negare che sia persona di buone maniere, cultura e spessore tecnico nel proprio ambito, in grado sicuramente di sentirsi a proprio agio in qualsiasi dei contesti che contano.

Più discutibile, invece, è il fatto che sul piano della sostanza rappresenti un’effettiva alternativa rispetto ai principali trend della politica italiana degli ultimi tempi. La sensazione, in effetti, è che Draghi sia stato in questi anni solamente il “primo della classe” del pensiero unico della politica del nostro Paese: più spesa pubblica e più debito pubblico.

Nei fatti, le decise politiche di espansione monetaria e di sostegno ai debiti nazionali di cui è stato regista nei sui anni alla guida della Bce cosa hanno di diverso, in termini qualitativi, con gli auspici di fondo dei cosiddetti “populisti”?

Certo, Draghi è convinto di aver trovato il giusto equilibrio e di aver incanalato istanze imprescindibili che venivano dal basso con il pragmatismo necessario a renderle efficaci. In altre parole, l’ex governatore si muove all’interno dello schema largamente e trasversalmente prevalente – quello secondo cui il vero dibattito si articola tra le spinte sociali che reclamano una maggiore discrezionalità dalla politica e i vigenti set di regole anch’essi emanazione di costruzioni politiche.

In questo senso, la questione diventa tutta sui modi e sulle forme con cui è lecito derogare a norme, regolamenti e linee di guida; e di conseguenza diventa fondamentale la figura dell’”esperto”, del “competente”, che con una sapiente manipolazione delle varie leve disponibili riesca in definitiva a portare in dono il “permesso” di fare ancora un po’ di più di spesa pubblica.

È evidentemente una visione secondo cui, in definitiva, il “deficit” e il “debito”, anche ingenti, non rappresentano un problema in sé, ma lo sono solo se “non autorizzati” da Bruxelles e quindi l’azione politica deve essere mirata a ottenere dalle entità sovranazionali l’opportuno endorsement per politiche espansive.

Per l’ex governatore della Bce, l’intero processo si richiude, in definitiva, per “vie politiche”, con contributo scarso o nullo degli agenti dell’economia libera. E la questione, in larghissima parte, è lasciare il governo di questo processo in mano a professionisti della negoziazione, anziché a degli improvvisati o a dei parvenu.

La vera falla del pensiero di Draghi è il fatto che, in definitiva, lasci intendere che la necessità dei limiti alla spesa pubblica e di un governo efficiente e “frugale” discenda da questa o quella regola del Trattato di Maastricht o del Fiscal Compact; in realtà essa discende dalla regole “pre-politiche” e “non negoziabili” dell’economia, cioè dal fatto che la ricchezza prima di essere consumata deve essere prodotta.

È proprio qualsiasi riferimento al “mercato” – al mercato “libero”, non ai costrutti dell’Ue, dall’Fmi o della Wto – che pare mancare totalmente nell’allocuzione di Mario Draghi.

Come sembra mancare qualsiasi vera analisi delle cause della scarsa competitività italiana: pressione fiscale, giungla normativa, incertezza del diritto, dimensione della spesa pubblica, assistenzialismo, dinamiche “non sane” di trasferimento di risorse tra i territori. Insomma, difficile pensare che un eventuale “governo Draghi”, oggi, potrebbe davvero essere la chiave per un cambio di rotta sostanziale rispetto alla politica a cui siamo abituati. Forse l’ex governatore della Bce potrebbe tornare bene per il Colle, anche per scongiurare il ripiegamento dell’attuale maggioranza su una candidatura più identitaria come quella di Romano Prodi, ma per il governo del Paese serve probabilmente concepire una visione ed un programma che vadano oltre lo statalismo incravattato e professionale dei “competenti”.