Le sardine: prodotto in scatola dei padroni

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Non è, poi, granché difficile tratteggiare l’identikit fenomenologico delle sardine. Non foss’altro che per il fatto che esse, in quanto prodotto in scatola del padronato cosmopolitico, debbono appieno rispecchiare il cliché dell’intellettuale globalista market-friendly e del politico aprioricamente avverso a ogni limite che possa frenare, ostacolare e governare l’incondizionata apertura richiesta dai mercati e bramata dalla loro cinica classe di riferimento. Eccole, allora, le sardine. Anzitutto, il cerchietto bene in vista sui protagonisti di sesso maschile: a sottolineare che ogni elemento residuale di quella virilità che sempre e solo cagiona sessismo, paternalismo e femminicidi è stata espunta.

Rimarcare la distanza con la plebe

In secondo luogo, una cultura scarsa e approssimativa, ostentata sempre e solo per marcare la propria superiorità rispetto alle plebi lavoratrici e all’aborrito popolo populista e xenofobo, che ancora pensa ad amenità grette come i salari e il futuro dei figli. La erre blesa, immancabile e spesso assunta come postura artata, è essa stessa tesa a rimarcare una patrizia distinzione rispetto alle vili plebi poco urbanizzate, scarsamente british e magari anche oscenamente dialettofone. V’è, poi, la tanto celebrata open mind, anch’essa giocata in modo scontato contro la volgare chiusura delle plebi italiche, che ancora, nella loro miseria umana e intellettuale, non si sono convertite ai fasti del globalismo dei viaggi low cost e dell’erranza edonista dell’Erasmus e che, anzi, pensano che sia un bene rimanere radicate nella loro terra strapaesana e con i loro legami triviali familiari.

La sardinica open mind, sia detto per inciso, coincide di fatto con la testa svuotata di ogni contenuto e aperta a ogni sollecitazione pubblicitaria e padronale: non diversamente da come – non ditelo a Santori – il tanto glorificato “essere cittadini del mondo” sempre sbandierato con entusiasmo da questi apolidi dell’esistenza corrisponde concretamente all’impossibilità di avere un posto fisso (di vita, di lavoro, di dimora). Chiedere alle Sardine di fare un passo oltre e di capire questa elementare verità di classe forse è troppo: replicheranno, con l’usuale ottusa ridondanza, che loro sono per l’accoglienza e per l’integrazione. Che è come, per rimanere in ambito ittico, chiedere al viandante “dove vai?” per sentirsi rispondere “trasporto pesce”.
Chi paga?

Non si può, d’altro canto, chiedere troppo a chi è stato prodotto e inscatolato dal potere global-capitalistico per assecondarne i desideri e rispettarne i desiderata, primo tra tutti la openness incondizionata. Non vi sarà sfuggito – è il segreto di Pulcinella – che le sardine si oppongono a tutto ciò che, a sua volta, possa opporsi al globalcapitalismo. Come, forse, non vi sarà sfuggito che la gremitissima piazza delle Sardine a Bologna, domenica scorsa, era stata allestita con grande cura e con immensi fondi per maxischermi e concertone, sorveglianza e riprese. La domanda sarà anche prosaica, ma merita di essere posta: chi paga, di grazia? E, dunque, chi sta dietro a questa rivolta ittica, che ha tutta l’aria di essere una rivolta colorata del potere e per il potere?
Il confronto con le giubbe gialle

Un ultimo aspetto che non deve sfuggirvi emerge dal confronto con le eroiche giubbe gialle in Francia: quelle che non hanno cerchietti ed erre blesa, ma calli e rughe dovute al lavoro e allo sfruttamento. Quelle che chiedono salari e diritti sociali, sovranità e dignità sociale e, in risposta, ricevono un bagno di sangue dall’élite liberista. Loro, invece, le sardine, muovendosi a banchi e seguendo le correnti del globalisticamente corretto, chiedono più globalismo e meno sovranità, più apertura e meno regolamentazione statale, più cosmopolitismo e meno populismo. In tutta risposta – ve ne maravigliate? – vengono celebrate a reti unificate dal potere, dal circo mediatico e dal clero intellettuale. V’è, davvero, altro da aggiungere?

Diego Fusaro