L’hanno detto in televisione

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So di nonne che appendevano a una spilletta d’oro i dentini da latte dei nipotini sottratti alla fatina o al topolino. So di gente che conservava gelosamente i calcoli renali espulsi tra atroci tormenti. So di influencer che ci hanno risparmiato le doglie live, ma in compenso ci hanno esibito tutte le ecografie del progressivo confezionamento di future star della rete.

In attesa che si possa usufruire di un corner di Fb nel quale aggiungere alle “storie” la diretta dell’estrazione del molare o dell’esplorazione rettale della prostata, godiamo già delle immaginette votive delle vaccinazioni, con gli entusiasti “premuniti” che lanciano urbi et orbi messaggi di speranza e senso civico, magnificando gli istantanei benefici sanitari, solidaristici e morali dell’operazione peraltro indolore.

E’ che ormai la spettacolarizzazione di ogni azione privata e pubblica è arrivata a compimento. E difatti proprio oggi l’illeggibile Corriere della Sera ci regala invece una lectio magistralis su Debord dopo più di 50 anni, in due pillole. La prima riguarda un insegnante intento alla Dad che dimentica di spegnere la webcam e trasmette al pubblico dei suoi allievi una sua focosa prestazione sessuale dopo quella professionale.

L’altra notizia invece è apparentemente più edificante e racconta della potenza del “buon esempio” nell’era digitale: una studentessa di 20 di Livorno al secondo anno di giurisprudenza contende la palma alla Ferragni con 53 mila follower su Instagram e 534 mila su TikTok, “riprendendosi” mentre studia. «Avevo problemi con lo studio”, racconta. “Il telefono mi deconcentrava. Allora l’ho piazzato davanti a me. La sua telecamera mi riprende mentre sono sui libri. Altri fanno la stessa cosa: si collegano e partecipano al mio live». Secondo lei e l’estasiato cronista che ne esalta la potenza emulativa sul pubblico non pagante: “Se vedono una che studia staccano dai social e sono invogliati a studiare. O a leggere un libro».

Insomma si aprono nuovi orizzonti grazie alla virtualizzazione della società della spettacolo, finora inesplorati dalla profezia distopica orwelliana. Pensate agli effetti demiurgici su alunni asinelli di una ricostruzione artificiale dei pomeriggi di Alfieri legato alla poltrona, la proiezione obbligatoria della vita e delle opere di Di Vittorio comminata alla Bellanova, o la “masterizzazione” della lettura del Grundrisse con la voce del giovane Karl a uso di Fusaro, o, meglio ancora, le riunioni dei padri costituenti teatralizzate per la Boschi, gli appunti di Olivetti per quello che ha “ereditato” immeritevolmente la sua impresa e così via.

A uno dei pensatori più malintesi e saccheggiati del Novecento, Guy Debord, trattato come uno sterile guastatore o come un teppista della filosofia, dobbiamo comunque delle intuizioni straordinarie che oggi trovano conferma.

Come quella di “falso indiscutibile”, che possiamo verificare ogni giorno grazie all’operosa solerzia di una informazione assoggettata che ci somministra porzioni della realtà, sue manipolazioni, rivelazioni pilotate di falsificazioni confezionate dai poteri economici, finanziari, polizieschi, per imporre una verità, condannando all’ostracismo chi si ostina a chiedere, interrogarsi e approfondire i contenuti di una narrazione pubblica prodotta e messa in scena come una pièce drammatica in cui fatti, numeri, statistiche, opinioni contrastanti e informazioni contraddittorie si sono accavallati dando luogo al paradosso di una tragedia collettiva che era necessario riconfermare ogni giorno e in ogni modo anche con sistemi repressivi, visto che veniva consumata da remoto, dentro agli antri della caste sacerdotali, in lazzaretti il cui personale veniva diffidato dall’esprimersi, nelle torri di cristallo più che nei laboratori delle aziende farmaceutiche, nei palazzi dei decisori.

E dunque proprio come per le tradizioni orali dei nibelunghi, era obbligatorio affidarsi a testimonianze, presunzioni di sapere, invettive e prediche dei sacerdoti, bersi l’amato calice dell’apocalisse incontrastabile in modo da essere distratti dalla consapevolezza che dopo anni di demolizione dello stato sociale e dello stato di diritto, la speranza di guarire da un virus, che nessuno realisticamente negava come non aveva mai negato influenze micidiali, polmoniti e altre patologie indotte o aggravate dal nostro “stile di vita”, consisteva nello starsene a casa, nello stesso stato di abbandono nel quale veniva lasciata la medicina di base, che grazie all’acquiescenza dimostrata nei confronti del mondo di impresa e del mercato, i soli luoghi a rischio sono le case nelle quali siamo stati confinati e che trasformiamo noi in focolai per via di insane inclinazioni, i musei, le scuole, benché a intermittenza, le biblioteche, i bar e i ristoranti, ma non la metro, i bus, le fabbriche, i supermercati. E che sono potenziali untori i camerieri, ma non i pony di Amazon, i ciceroni delle Gallerie statali, ma non gli esattori dell’Agenzia delle Entrate, autorizzata a esigere i pagamenti provvisoriamente sospesi.

E d’altra parte la società dello spettacolo si era retta fin dall’inizio sulla visione e dunque sulla televisione tanto che tycoon di tutte le latitudini hanno potuto arricchirsi anche con la creazione di una realtà parallela addomesticata e soprattutto “privatistica”, nella quale i processi erano celebrati nel tribunale di uno studio televisivo, i dibattiti parlamentari erano trasferiti nei talk show. Una realtà parallela artefatta e drammatizzata che adesso non è più addomesticata, al contrario si alimenta di contenuti millenaristici, essendo stata accertata la presa sicura che hanno le cattive notizie, l’intimidazione come sistema di governo, il ricatto come forma di persuasione e la minaccia come persuasione morale invincibile.

Così è tornato in auge il motto “l’ho sentito dire in televisione”, cara vecchia frase arcaica ripescata insieme all’amor patrio patria, all’unità di tutti sotto la bandiera e al canto di Bella ciao alternato a altri più orecchiabili inni, all’epica del viaggio della speranza dei vaccini nel quale è sfociata la mitologia dei nuovi eroi in trincea, medici purché entusiasti vaccinisti pena la radiazione, personale sanitario fino a ieri ricattato e umiliato, instancabili ministri impossibilitati a andarsene in meritate vacanze.

Tutto questo ha dato luogo all’irruzione dell’immaginario all’interno della realtà, nella quale la percezione di quello che succede davvero vacilla e suscita dubbie die quali siamo invitati fermamente a sentirci in colpa, la possibilità di distinguere tra ciò che è effettivo, concreto, plausibilmente vero e ciò che invece è apparente e plausibilmente fittizio, diventa sempre più labile.

Si capisce come per orientarsi l’unico espediente è infilarcisi in questa costruzione ormai più virtuale che vera, diventare protagonisti per molto meno dei 15 minuti di celebrità, farsi un selfie sperando in molti like in modo da guardarci e riconoscerci nel deserto silenzioso pieno di immagini e voci nel quale non siamo certi di vivere.                                                                                                                               (Anna Lombroso per il Simplicissimus)