L’Italia è totalmente dipendente dall’estero per la fornitura dei vaccini

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I cervelli ci sono, quei ricercatori che hanno resistito alle sirene delle istituzioni internazionali. Ci sono anche i privati disposti a rischiare. Mancano però i soldi o arrivano con il contagocce. E soprattutto c’ è scarsa lungimiranza politica. Sui vaccini si proiettano i soliti mali italiani. I due vaccini made in Italy, Reithera e Covidevax, rischiano di naufragare nelle pastoie di una burocrazia che non ha i tempi della scienza e per assenza di investimenti.

Così siamo prigionieri delle forniture delle case farmaceutiche straniere. Una mancanza di autonomia che ha già avuto effetti pesanti sulla popolazione e ne avrà anche per il futuro: basta vedere quello che è successo con il blocco negli Usa del Johnson&Johnson.

Ormai è chiaro, la pandemia non si esaurirà di qui a fine anno. Ce la porteremo dietro per chissà quanto tempo ancora, tant’ è vero che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato la trattativa con Pfizer per 1,8 miliardi di dosi dal 2021 al 2023.

Nel settore dei vaccini l’ Italia sconta errori politici sistematici. Siamo totalmente dipendenti dall’ estero, dalle multinazionali che ora spadroneggiano al punto da mandare in crisi intere nazioni per il solo fatto di non rispettare le consegne. Pfizer, Moderna, Astrazeneca sono partiti nella ricerca contemporaneamente alle due aziende italiane che hanno il brevetto dei vaccini (Reithera e Takis), ma con la differenza che hanno ricevuto montagne di soldi, anche contributi pubblici, oltre a essere strutturate con laboratori, tecnologie e dipendenti più all’ altezza della sfida.

Eppure l’ Italia è stata un punto di riferimento mondiale per la sperimentazione dei vaccini fino agli anni Novanta, fino al disastro Enimont che portò alla cessione della senese Sclavo, passata di mano in mano, fino ad arrivare alla britannica GlaxoSmithKline (Gsk) che vendette poi i vaccini influenzali italiani alla Seqirus controllata dall’ australiana Csl. Il nostro Paese quindi paga decenni di assenza dal settore.

Il ministero dello Sviluppo economico ha fatto sapere che al momento sarebbero almeno 4 le aziende pronte a produrre vaccini direttamente o in conto terzi: il loro nome è top secret. L’ obiettivo indicato dal ministero è di raggiungere entro l’ anno l’ autosufficienza vaccinale anche per il futuro. Ma al momento sembra un libro di buone intenzioni, perché «sono necessari non solo incentivi economici, già a disposizione, ma anche una semplificazione normativa dell’ industria farmaceutica» che non si annuncia facile.

Negli annunci del governo c’ è pure la creazione di un polo pubblico-privato relativo alla farmacia biologica e un polo vaccinale. Bisogna però cercare partner privati disposti a investire con i rischi d’ impresa che comporta la ricerca sui vaccini. Così il target fissato inizialmente dal commissario Francesco Paolo Figliuolo di 500.000 vaccinazioni al giorno entro fine aprile è stato ridotto di quasi il 40% (315.000) per la mancanza di dosi. E per il futuro, qualora si dovessero rendere necessarie altre massicce campagne vaccinali, resteremo in balia dei contratti firmati da Bruxelles e dei capricci delle Case farmaceutiche fornitrici.

Il nostro Paese ha un primato in Europa, ogni anno conteso con la Germania, per la produzione di farmaci. Ma abbiamo un ruolo marginale sui vaccini, a parte l’ infialamento di prodotti provenienti dall’ estero in base a qualche accordo commerciale. Lo stabilimento di Anagni del gruppo americano Catalent si occupa di confezionare l’ Astrazeneca: è quello che sollevò forti discussioni qualche settimana fa per la presenza di 29 milioni di dosi ferme nel deposito.

La Gsk a Rosia (Siena) è focalizzata sulla meningite: per modificare l’ impianto allo scopo di produrre vaccini anti Covid ci vorrebbero 7-8 mesi e bisognerebbe trasferire altrove la produzione dei farmaci anti meningite, patologia che comunque colpisce milioni di individui. A dicembre il gruppo ha annunciato un investimento di 18 milioni di euro per ammodernare la struttura e contribuire a infialare e confezionare l’ adiuvante pandemico del nuovo vaccino Sanofi-Gsk.

A Latina l’ Haupt Pharma della multinazionale Aenova, che produce per conto terzi, ha avviato un progetto di riconversione di un reparto per l’ infialamento di medicinali tra cui i vaccini. Il Pfizer sarà prodotto nello stabilimento di Monza del colosso farmaceutico americano Thermo Fisher. Si punta a sfornare 130.000 fiale al giorno, 30 milioni entro il 2021.

Sempre in Brianza opera la biorfamaceutica Adienne di Caponago, un’ azienda impegnata dal 2004 nella ricerca e sviluppo di farmaci per le malattie rare e per il trattamento del trapianto di cellule staminali emopoietiche: qui da luglio si produrrà lo Sputnik, ma non per l’ Italia.

Infine, nei laboratori di Roche Italia, vicino a Monza, sono stati messi a punto i test diagnostici utilizzati per la ricerca del vaccino Moderna e ora sono in corso studi, in collaborazione con l’ americana Regeneron, per un trattamento per la terapia con anticorpi monoclonali destinati alla cura di pazienti non ospedalizzati.

Fin qui abbiamo parlato di grandi gruppi stranieri e di aziende che producono vaccini di case farmaceutiche estere. I vaccini made in Italy sono legati a filo doppio alla possibilità di ricevere fondi. L’ imprenditore Lucio Rovati, a capo della Rottapharm Biothec, è impegnato in un prodotto tutto italiano. Il vaccino, chiamato Covidevax, è stato ideato dalla Takis di Castel Romano e Rottapharm si sta occupando dello sviluppo. Si basa su una tecnologia nuova rispetto alle altre già disponibili, a Rna messaggero (Pfizer e Moderna) e a vettore virale (Astrazeneca e Johnson&Johnson).

Per stimolare la reazione immunitaria essa utilizza un frammento di Dna che viene iniettato nel muscolo e promuove la produzione di una porzione della proteina Spike, la principale arma che il virus utilizza per entrare nelle cellule umane.

Nella fase di sperimentazione è stato coinvolto un consorzio di centri clinici italiani quali l’ Istituto Pascale di Napoli, lo Spallanzani di Roma e l’ ospedale San Gerardo di Monza in collaborazione con l’ università Bicocca di Milano. Per completare la fase 3 occorrono finanziamenti e poi bisogna stringere accordi con un pool di aziende per la produzione su larga scala.

C’ è poi il vaccino di Reithera, azienda di Castel Romano, entrato in fase di sperimentazione clinica avanzata. Le somministrazioni sui volontari hanno avuto risultati incoraggianti. L’ obiettivo è di concludere i test entro la fine dell’ anno. Lo studio si avvale della collaborazione dell’ Istituto Spallanzani ed è finanziato con 8 milioni dal Miur e dalla Regione Lazio e altri 81 milioni da Invitalia, entrata al 27% nell’ azionariato, mentre l’ azionista di maggioranza è la svizzera Keires. L’ azienda finora ha ricevuto meno di un quarto dei soldi promessi. Ma ora il vero interrogativo è se valga la pena di investire risorse su prodotti che rischiano di essere tagliati fuori dalle scelte europee, orientate a puntare su Pfizer e Moderna.                                                                                                                                                                                        Laura Della Pasqua