Marialba Russo e la riappropriazione del corpo delle donne, di Tiziana Lo Porto

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Tra il marzo 1978 e il dicembre 1980, appaiono nelle strade di Napoli e di Aversa decine di manifesti di film a luci rosse che reclamizzano, oltre ai film, le prime sale di cinema porno aperte in Italia.

La storia che raccontano è quella di un’evidente ma ingannevole liberazione sessuale, raramente paritaria, che cerca il desiderio degli uomini (i maggiori fruitori di quelle sale) ma espone il corpo delle donne, che attrae ma più spesso respinge, mostrando come la morale e il desiderio siano correlati e come, in un corpo a corpo tra i due, a vincere sia quasi sempre la prima, generando censura, scandalo, divieto, anche autoimposto. In quegli stessi anni Marialba Russo decide di fotografare quei manifesti. Nasce così una serie di oltre 60 scatti raccolti ed esposti soltanto adesso nella mostra Cult Fiction a cura di Cristiana Perrella (da inizio maggio al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato).

Una delle cose più evidenti nel guardare i manifesti nelle foto è che a nessun produttore con un po’ di sale in zucca oggi verrebbe in mente di usare il corpo nudo di una donna per promuovere un film, non tanto per schivare le accuse di sessismo, maschilismo, patriarcato e simili, quanto perché un manifesto con una donna nuda non potrebbe circolare su Facebook, Instagram e altri social network, dove anche una foto di Francesca Woodman a seno nudo viene intercettata e censurata, bloccando l’account dell’ignaro utente che dovrà giurare (per potere sbloccare l’account) di non postare più foto come quella. Detto in sintesi: le donne nude prima facevano botteghino, adesso portano solo guai.

Le ragioni per cui Marialba Russo abbia fotografato quei manifesti andrebbero chieste a lei. Ma viene da pensare che prolungare il tempo di permanenza dello sguardo – suo e di chi guarda le foto – sia una di esse. Prolungando il tempo dello sguardo si attivano i pensieri, ma non solo. Fermandosi a guardare quelle immagini si può decidere se piacciono o meno, se eccitano o no, se davvero si ha voglia di vedere quel film oppure no. Il desiderio è soggettivo e libero, e soggettivo è il confine che separa ciò che ci turba da ciò che ci eccita. Istintivo è così immaginare adesso Russo nel tempo dello scatto, e domandarsi se fosse un tempo rapido o prolungato, se il fatto stesso di essere una donna che nell’Italia di fine anni Settanta si fermava in strada a fotografare il manifesto di un film porno rendesse l’operazione imbarazzante o eccitante, o anche entrambe le cose.

Di sicuro quel tempo lì, il tempo dello scatto, è la vera opera d’arte, performance voluta o involontaria, effimera e non catturata se non dal potere evocativo di queste foto che, più che dell’Italia di quegli anni, molto dicono della donna che le ha fatte, sorella delle donne sui manifesti in cui si specchia ma in controllo, che anche solo per un attimo avrà considerato l’atto di scattare una foto come un gesto di riappropriazione, di riconquista di un corpo che, nell’attimo stesso in cui appartiene a tutti, smette di appartenere a qualcuno.