Maurizio Sella, Presidente di Banca Sella Holding

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Banca Sella Holding Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Sono nato a Biella il 12 maggio 1942 e appartengo alla generazione dei figli della guerra. Di lì a un anno gli anglo-americani sarebbero sbarcati in Sicilia e avrebbero cominciato una lunga e faticosa risalita dal sud della penisola. Le incursioni aeree erano all’ordine del giorno e ricordo ancora oggi nitidamente il terrore che provavo in braccio a mia madre, che aveva più paura di me, quando si udiva il rumore di fondo dei bombardamenti sulle città di Milano e di Torino e poi il suono delle sirene, al quale dovevamo correre al rifugio antiaereo vicino a casa. Fortunatamente, ad eccezione di un paio di bombe che caddero sulla fabbrica tessile laniera della famiglia, il lanificio “Maurizio Sella”, unica nel biellese a essere danneggiata, non ci furono altre conseguenze.

La famiglia Sella

La famiglia aveva la fortuna di poter contare sul grano e sulle noci dei terreni di San Gerolamo e su una mucca, che mio padre mungeva per ricavare latte e per produrre panna e burro, che si otteneva agitando la crema di latte in affioramento in un fiasco. Chiedevo di po- termi rendere utile, facendo quel lavoro, ma gli adulti me lo impedivano per paura che facessi cadere il fiasco. Continuavo a ripetere, nonostante la tenera età, come mi hanno sempre raccontato in seguito, “datemi qualche lavoro”.

Ma ho avuto anche la fortuna – dopo la Resistenza, il ritorno della democrazia e gli aiuti del piano Marshall – di crescere in un momento storico straordinario: quello della Ricostruzione, dopo le difficoltà della dittatura (mio padre non aderì mai al fascismo) e della guerra. Come ho avuto la fortuna di vivere il periodo altrettanto straordinario, tra il 1948 e il 1962, del miracolo economico, che ha portato la nostra economia ad essere una delle più avanzate del mondo, nella seconda parte di quello che lo storico Eric Hobsbawm ha definito il “secolo breve”. Breve – si fa per dire – ma certamente molto intenso. Così com’è intenso il momento attuale, caratterizzato dall’onda lunga di quella che probabilmente sui libri di storia di domani sarà ricordata come la più grande crisi economico-finanziaria, peggiore anche di quella del 1929- 1933, che ora sta finendo. Ma che rappresenta anche una fase di grandi opportunità per chi ha la volontà e il coraggio di investire sui grandi cambiamenti in atto, dovuti principalmente alla globalizzazione, all’innovazione tecnologica e alla cosiddetta disruption digitale – in ogni settore produttivo e in ogni industria – che sta diventando una vera e propria nuova rivoluzione industriale.

Non me ne vorranno i lettori di queste pagine se in questa biografia – che per forza di cose non è completa – non troveranno episodi dettagliati di vita professionale ma, come ha scritto Franzo Grande Stevens introducendo il suo libro Vita di un avvocato, “un avvocato non ha memoria. I ricordi devono affiorare tutti, nitidi, improvvisamente soltanto quand’egli incontra il cliente”. Faccio mie queste parole, perché valgono anche per un banchiere. La mia vita fino ad oggi è scorsa lungo le pagine di Storia. Ed è proprio dalla Storia che voglio partire per raccontarla, a cominciare da quella di famiglia. Ad essa, infatti, devo molto per gli insegnamenti, i valori morali, i principi, le conoscenze e le possibilità di mettere tut- to questo a frutto nel lavoro, nell’impresa, nelle associazioni e nelle istituzioni alle quali mi sono dedicato e continuo a farlo. Com’è nelle tradizioni di famiglia, inoltre, ho sempre cercato di salvaguardare una porzione di tempo libero per dedicarmi all’attività fisica, praticando sport che vanno dalla vela, all’alpinismo, allo sci, allo sci-alpinismo, alla pesca e alla caccia e alle escursioni in montagna. Nella cultura di famiglia, infatti, hanno avuto grandissima parte gli interessi naturalistici, scientifici, alpinistici, che tramandati da una generazione all’altra, portarono alcuni membri a risultati rilevanti sia nella ricerca che nelle opere da essi compiute.

L’equilibrio e il benessere psico-fisico – su cui tanto insisteva mio padre Ernesto – sono ingredienti indispensabili per le buone decisioni sul lavoro e in famiglia. A diciassette anni mi si prospettò anche una possibile carriera olimpica nello sci, in seguito ad un ottimo risultato in uno slalom gigante a Breuil Cervinia, ma siccome avrei dovuto rinunciare a studiare e, di conseguenza, a lavorare nell’azienda di famiglia, scelsi di non seguire quella strada. Appartengo a una famiglia di imprenditori che fin dalla seconda metà del Cinquecento, attraverso tredici generazioni, ha operato nel campo del tessile laniero, tradizione del biellese dovuta alla qualità dell’acqua non calcarea della zona. Proprio qui, a Valle di Mosso prima e a Biella poi, nell’Ottocento, prese il via la rivoluzione industriale in Italia. Nel 1815, infatti, lo zio della mia bisnonna, Pietro Sella, dopo un viaggio in Inghilterra, dove andò a fare l’operaio, per capire come funzionavano le macchine per la lavorazione, andò successivamente da William Cockerill, che aveva aperto in Belgio un’officina di produzione di macchinari tessili, dove acquistò otto esemplari diversi di macchine che servivano a monte del processo di filatura e a completamento del processo di tessitura, nello specifico a battere, pelucciare, drossare e cardare la lana, poi a filarla in grosso e in fino, e quindi a guernire e cimare i panni.

Per ogni esemplare importato Pietro Sella e i suoi fratelli ne riprodussero altri due, ottenendo così tre esemplari per ogni tipologia di macchina. Nel 1817 ottenne le patenti dal Re di Sardegna per utilizzare i macchinari e le macchine vennero messe in produzione e iniziarono ben presto a contribuire in maniera determinante alla crescita del fatturato dell’azienda del ramo terzo della famiglia. A seguito di questo processo di meccanizzazione dei filatoi di lana, il trisnonno Maurizio Sella e sua moglie Rosa Sella – che proveniva dal ramo ricco della famiglia – in cerca di salti con maggior quantità d’acqua necessari per far girare la ruota e trasmettere l’energia meccanica necessaria a far girare le macchine, nel 1835 trasferirono l’attività sul torrente Cervo a Biella. Maurizio e Rosa ebbero ventitré figli, quattro dei quali porteranno avanti l’attività: Francesco, Gaudenzio, Giuseppe Venanzio e Quintino.

Oggi nello stabilimento lungo il torrente Cervo in linea con questa tradizione di innovazione hanno sede il Centro elaborazione dati, l’università aziendale e il polo d’innovazione fintech del Gruppo Banca Sella, SellaLab, questi ultimi due creati da mio figlio Pietro. E la banca? Il passo dall’industria tessile alla nascita della banca avvenne in maniera del tutto naturale, proprio perché c’erano molti maschi in famiglia e quindi si pose l’esigenza di creare nuove attività, ma anche perché era ben chiaro il collegamento tra risparmio e crescita economica. Così, con il settore tessile ben avviato e che si stava rapidamente diffondendo in tutto il biellese, fu Quintino Sella a ispirare l’idea di dar vita a un istituto bancario, che nacque dopo la sua morte. Determinante fu anche il contributo di suo fratello Giuseppe Venanzio, secondo il quale era essenziale agevolare l’afflusso dei risparmi, purché in modo oculato, verso gli investimenti industriali.

Fu il terzogenito di Giuseppe Venanzio, Gaudenzio, a costituire nel 1886, insieme ad altri sei tra fratelli e cugini, la Banca Gaudenzio Sella & C., che è all’origine dell’attuale Banca Sella e del Gruppo del quale essa fa parte. Era il 23 agosto 1886. Gaudenzio rimase alla guida della banca fino alla morte, nel 1934, quando gli successero i figli: Ernesto e Giorgio. Sotto la loro guida la banca intraprese un percorso di ulteriore crescita, con l’apertura della prima succursale fuori Biella, a Ponzone in Val Sessera. Nel 1949 divenne una società per azioni, di cui mio padre era il Presidente e mio zio l’Amministratore Delegato. Nel dopoguerra furono aperte altre cinque filiali nel biellese e furono gettate le basi della futura espansione. Cominciai a lavorare il 1° giugno 1966 in quella che dal 1962 era diventata Banca Sella, in linea con ciò che era accaduto in quasi tutte le banche di famiglia del mondo che avevano tolto il nome del fondatore e lasciato solo il cognome della famiglia. Ho respirato fin dalla nascita valori quali l’intraprendenza, l’imprenditorialità, il senso del dovere, l’etica del lavoro, l’onestà, la dedizione all’impresa di famiglia, l’importanza dell’unione degli azionisti di famiglia e – come dicevano i figli del fondatore Venanzio e Riccardo – l’amore per il cliente che ci dà il pane (che è uno degli insegnamenti sempre vivi nella nostra famiglia e nella nostra impresa).

Ed è in questo ambiente che, fin da bambino, ho maturato la passione per la banca. Nel suo testamento olografo, il 15 settembre 1880, Quintino Sella scrive “…rammentino che la nostra famiglia deve la sua prosperità al lavoro, alla parsimonia e alla concordia”. Nel 1947, quando avevo appena cinque anni, al momento di lasciare Biella per andare a trascorrere un periodo di vacanza sulla riviera ligure con i miei genitori, andai da una mia cugina con un insieme di bastoncini, fiori e frasche ben ordinati e raccolti da un elastico, dicendole che quella “era la mia banca” e che gliel’affidavo affinché la custodisse con cura e me la restituisse intatta al mio ritorno.

Questo episodio ben chiarisce non solo come il mio destino di lavorare in banca era già scritto, ma anche l’idea di banca – e più in generale di impresa – che c’era nella nostra famiglia e che ancora oggi persiste, intesa non come qualcosa di statico, bensì di vivo, da preserva- re e coltivare con cura, attenzione, prudenza, passione e dedizione, e da far crescere, in particolare con l’innovazione. Crescendo, il mio interesse per la banca si sviluppò ulteriormente.

Da ragazzo, ad esempio, tornavo a piedi da scuola in tempo per pranzare con i miei genitori. A quel tempo in casa nostra si leggevano due giornali: mio padre era solito leggere il “Corriere della Sera”, ritenuto il più informato sulle questioni politico-economiche generali, e mia madre “La Stampa”, il giornale piemontese per eccellenza. Ero un lettore avido, specie della parte economica, ma chiaramente dovevo attendere che loro finissero di leggere.

Per ingannare l’attesa, allora, non mi rimaneva che immergermi nella lettura dei documenti della banca che mio padre portava con sé e lasciava bene in vista sul suo tavolo di lavoro. Non ho mai saputo se lo facesse per abitudine o volutamente, per sollecitare le mie curiosità e le mie conoscenze ed accrescere la mia passione, ma senz’altro borbottava di non mettere il benché minimo disordine tra quei fogli e di non far cenno a chicchessia di ciò che leggevo per rispetto del segreto bancario, che già allora rispettai con grande attenzione, cosa che mi fu di straordinaria scuola per tutto il resto della vita.

Dopo il liceo mi laureai in Economia e Commercio a Torino, con una tesi di Storia economica con Carlo M. Cipolla. Il tema di fatto me lo impose lui, vale a di- re un’accurata ricostruzione della genealogia di fami- glia – a confronto con sette famiglie della borghesia ginevrina – e del conto economico, tra il 1815 e il 1827, dell’azienda tessile del terzo ramo della famiglia, che a quell’epoca era considerato quello “ricco”, a differenza del nostro, il secondo ramo che era quello “povero”.

Feci anche due sottotesi, una sul fallimentare e l’altra sul deposito bancario. Una volta laureato, dunque, il momento era arrivato: la sera del 31 maggio 1966 andai da mio padre e gli dissi che avrei fatto domanda di assunzione in banca. La sua reazione apparentemente non fu positiva, anzi si scurì in volto dicendomi che credeva che sarei andato a lavorare alla Filatura e Tessitura di Tollegno, azienda in maggioranza della famiglia e di maggiori dimensioni rispetto alla banca, considerata l’attività più importante, con oltre mille dipendenti contro i poco più di cento della banca. Tuttavia mio padre accettò la mia scelta, dicendomi una cosa che ancora oggi ricordo spesso, a proposito del rapporto tra banche e imprese: “Del resto se andrai a lavorare in banca farai un’esperienza e acquisirai competenze che poi ti potranno consentire agevolmente di passare ad occuparti della Filatura e Tessitura di Tollegno, mentre al contrario il passaggio inverso sarebbe più difficile, se non impossibile”.

È possibile che mio padre preferisse un mio impiego nella Filatura e Tessitura di Tollegno anche perché era gestita da altri, che si erano indirettamente imparentati con i Sella, a differenza della banca che invece era gestita da lui e da zio Giorgio, e quest’ultimo ne era l’Amministratore Delegato. Sta di fatto che mi chiese: “E a chi andrai a chiedere di essere assunto in banca”?

Un po’ spiazzato risposi che sarei andato dallo zio Giorgio, al ché mio padre annuì dicendo: “Bene, ma non so se ti assumerà”. Con mio zio Giorgio andavo molto d’accordo e per me era come un “secondo padre”. Così mi presentai fiducioso, con la banca dentro me stesso e in piena prospettiva di poter lavorare in futuro per essa, alla sua scrivania e avanzai la mia richiesta. Ero tutto ben vestito, in giacca e cravatta, con le mani dietro la schiena, a testimonianza di una grande forma di riguardo e di rispetto. La prima risposta fu: “Non so se ti assumo”.

E fece silenzio. Non so se si era messo d’accordo con mio padre – sospetto di sì – ma in quel momento fui preso dall’ansia, anche perché, com’era solito fare, riprese a svolgere il lavoro alla sua scrivania senza aggiungere altro, per alcuni minuti. Infine, accennando un sorriso, disse: “Sì, posso accettare la tua domanda di assunzione ma a condizione che facciamo un patto”. Chiesi se lo volesse scritto o verbale e lui mi disse che bastava verbale: mi avrebbe assunto solo a patto che avessi lavorato per cinque giorni alla settimana fino alle 18 e il sabato fino alle 14, uscendo alla stessa ora degli altri dipendenti, usufruendo dei venti giorni di ferie previsti, segnando eventuale straordinario e senza portarmi il lavoro a casa. Accettai prontamente, ma non posso dire di aver rispettato quel patto. Peraltro ho sempre avuto il sospetto che potesse trattarsi di un espediente voluto da Ernesto e Giorgio per farmi lavorare di più sapendo che ero un “bastian contrario”. Come da tradizione della famiglia cominciai a lavorare come impiegato di prima, entrando con lo stesso grado col quale entravano tutti i neoassunti laureati, non appartenenti alla famiglia, con uno stipendio netto di 117 mila lire al mese, identico a quello degli altri. Appena finivo di imparare a eseguire da solo una determinata mansione, rimanendo per il tempo sufficiente e superando il fine mese, l’Amministratore Delegato mi permetteva di essere assegnato ad altra mansione, accrescendo così la mia esperienza e le mie conoscenze professionali specifiche e della macchina. La sera a casa mi portavo, se non il lavoro, lo studio delle cose che affrontavo al lavoro. Ricordo che, non avendo studiato ragioneria, una delle cose in cui trovai maggiori difficoltà fu la “prima nota”, il registro delle entrate e delle uscite, costituito da un insieme di scritture di partita doppia raggruppate per categoria. Una volta raggiunto il risultato di produrre una prima nota in maniera adeguata, passai alla mansione di cassiere, per poi diventare Vice e Capo succursale, a Chiavazza, un quartiere di Biella, per qualche mese. Sono stato per qualche tempo anche a lavorare a Valle Mosso, una zona industriale molto importante del biellese.

Passai poi a lavorare ai fidi e a tutte le altre mansioni, terminando un percorso di apprendimento e di lavoro pratico che durò oltre tre anni e mezzo. In questo periodo un’esperienza particolarmente formativa fu una ispezione della Banca d’Italia. Ero di rientro dalle vacanze estive e mi presentai a mio padre con una lunga barba (nera, a dispetto dei capelli biondi). Mio padre mi mandò dal barbiere di fronte a tagliarla, perché mi disse “Finché hai la barba non puoi mettere piede in banca”. Dopo di che mi ordinò di presentarmi all’ispettore e mettermi a sua disposizione per tutta la durata dell’ispezione, che fu di alcuni mesi. Durante quel periodo ebbi la possibilità di imparare molto, in particolare su quali erano gli aspetti della banca da tenere maggiormente sotto controllo e quali erano i punti di debolezza sui quali migliorare. Banca d’Italia ha sempre rappresentato una grande scuola e le ispezioni erano momenti di notevole apprendimento. Peraltro è mia convinzione consolidata, e della nostra famiglia in genere, che un componente della famiglia che va a lavorare in azienda, se ricoprirà i più alti livelli dirigenziali, debba conoscere bene il mestiere, ad un livello tale per cui tutti gli altri colleghi lo sappiano e ne abbiano piena consapevolezza e convinzione, in modo tale da indurli sempre a dirgli la verità e a non provare ad ingannarlo.

Finito il periodo di tirocinio e l’affiancamento con l’ispettore, andai da mio padre per dirgli che avrei voluto occuparmi, più nello specifico, di recupero dei crediti in sofferenza. Ma quello era un settore del quale si occupava lui personalmente, anche molto bene, e mi disse di occuparmi di qualsiasi cosa ma non di quello. È un episodio che fa riflettere anche sul tema della difficoltà di lavorare insieme tra padre e figlio, anche se credo che sarei stato capace di farlo e che il mio rapporto con lui sarebbe rimasto ottimo, peraltro con ulteriori grandi possibilità di apprendimento. E sono altresì convinto che anche lui sarebbe andato molto d’accordo con me.

Così, anche per via dello stretto rapporto con zio Giorgio, decisi di occuparmi insieme a lui di organizzazione, oltre che di contabilità, della quale lo zio non era altrettanto appassionato. Il Consiglio mi nominò Capo Contabile e, di fatto, responsabile dell’organizzazione. Banca Sella era già ben organizzata e innovativa per l’epoca. La propensione all’innovazione, del resto, è stata sempre uno dei fattori distintivi della famiglia, unita allo spirito imprenditoriale e alla volontà di progredire, pur con la tradizionale sana e prudente gestione. Ero ancora un liceale, al quale l’Amministratore Delegato chiedeva regolarmente un parere, quando fummo tra i primi ad acquistare un computer dell’Ibm a schede meccanografiche e qualche anno dopo arrivò il centro elettronico a nastri. I primi a essere meccanizzati furono gli estratti conto.

Qualche anno più tardi si passò allo scalare, al calcolo degli interessi e delle competenze, con un importante incremento di efficienza e di rapidità, al servizio dei clienti. Tra il 1971 e il 1972, quando la banca aveva poco più di un miliardo di lire di capitale e riserve, chiesi l’autorizzazione per comprare un nuovo centro elettronico che costava 750 milioni, non più a nastri bensì a nastri e dischi, che ci permise di avere un ulteriore incremento di efficienza, poiché per mezzo dei pettini che leggevano i dischi in tempo reale, non bisognava più svolgere tutto il nastro per cercare un dato. Alcuni anni dopo fummo anche una delle prime banche ad avere organizzativamente i terminali allo sportello, con i quali iniziò l’epoca del “tempo reale”. Avemmo ottimi risultati di sviluppo e la banca fece un bel salto in avanti.

Questo spirito si tramanda di generazione in generazione e ha continuato ad accompagnarci anche nello sviluppo successivo, quando la banca è stata anche tra le prime, se non la prima, negli anni ’60, a introdurre le macchine Chubb (le antenate dei moderni Atm) per prelevare contanti tramite uno sportello automatico e, negli anni ’70, a emettere i primi “mini assegni”, assegni bancari di piccolo taglio, dalle 50 alle 350 lire, in risposta alla carenza di moneta che rendeva difficoltoso il lavoro quotidiano dei commercianti. Questa propensione all’innovazione è proseguita nel tempo, con la banca che è stata tra le prime in Italia e in Europa a gestire transazioni di e-commerce, a lanciare l’internet e il mobile banking, a creare un acceleratore fintech (SellaLab, che a Biella ha sede negli immobili dello storico Lanificio di famiglia lungo il torrente Cervo ed è presente anche in altre città italiane) e ad avviare una piattaforma di “open banking”, cioè una infrastruttura tecnologica aperta a imprese innovative e startup, che possono accedere a servizi e funzioni finora accessibili solo dalla banca, integrando l’operatività bancaria di cui hanno bisogno direttamente nelle proprie piattaforme e nei servizi che offrono ai clienti.

Alla morte di mio padre, nel 1974, zio Giorgio divenne Presidente della banca e fui nominato dal Consiglio Amministratore Delegato e Direttore Generale, carica che ho ricoperto fino al 2002. In questo periodo continuò l’opera di espansione territoriale della nostra banca e, in vista dei cento anni dalla sua fondazione, nel 1985, aprimmo la sede di Torino in piazza Castello. All’epoca non era facile per una piccola banca di provincia poter ottenere l’autorizzazione ad aprire una sede in un grande centro come Torino e per farlo chiudemmo e trasferimmo la succursale di Chiavazza, che era la storica succursale di città, in un quartiere di Biella. Nel 1992, in virtù di questa espansione raggiunta, nacque il Gruppo Banca Sella.

Avevamo allora 65 succursali, che oggi sono diventate circa 300 con anche l’acquisizione, a partire dagli anni Ottanta, di diversi istituti di credito locali. Nel 2000, alla morte di Giorgio Sella, fui nomina- to dal Consiglio, al quale partecipava circa un 30% di consiglieri indipendenti, Presidente della capogruppo (allora Bansel), carica che ricopro tutt’ora nell’attuale capogruppo Banca Sella Holding. Ricopro, inoltre, fin dalla sua nascita, dal 1989, quando gli zii paterni erano ancora vivi, anche la carica di Presidente della Maurizio Sella S.A.A., la holding di famiglia, da me fortemente voluta, per evitare il rischio di scalate e per una governance ottimale. Quando divenni Presidente, alla morte dello zio Giorgio, proposi al Consiglio d’Amministrazione di fare una ricerca anche all’esterno per un Amministratore Delegato, ma i componenti indipendenti del CdA, rimasero sorpresi e mi dissero subito che ritenevano mio figlio Pietro, che era intervenuto spesso in Consiglio, il più adatto fra tutti i manager di famiglia e non. Mio figlio Federico, di un anno più giovane e in banca da meno tempo, nel frattempo si stava appassionando e specializzando in gestione dei patrimoni e da allora, con ottimo successo, e anche in questo caso con il parere degli Amministratori indipendenti, ha assunto la carica di Amministratore Delegato di Banca Patrimoni Sella & C., nata nel 2007 dalla fusione di Banca Patrimoni SpA (a sua volta nata due anni prima dalla fusione di Sella Investimenti Banca e Gestnord intermediazione Sim) e Sella Consult Sim. Nel Gruppo opera anche Sella Corporate Finance, una divisione della capogruppo specializzata in operazioni di finanza straordinaria, guidata da Giacomo, figlio di mio fratello Lodovico. Lodovico è stato uomo di grande cultura e competenza, con doti fuori dal comune di umanità, entusiasmo, curiosità, rispetto e capacità di dialogo. Personificava i valori della Famiglia Sella, che era sempre capace di individuare, tramandare, diffondere e vivere, contribuendo alle decisioni del Consiglio d’Amministrazione della banca. Dagli anni Ottanta si è dedicato in particolare alla Fondazione Sella, che sotto la sua guida è diventata fonte di conservazione del sapere e del patrimonio storico della famiglia, del territorio e talvolta della nazione. Sua figlia Angelica oggi sta continuando a portare avanti quel lavoro. L’impegno professionale non ha riguardato solo la banca. Il fatto di avere una lunga esperienza nel settore organizzativo mi ha portato a ricoprire diverse cariche nelle associazioni di sistema. Fui nominato Presidente di quella che sarebbe diventata la Istinform, un’impresa di servizi comune delle popolari e delle banche private, per portare avanti la meccanizzazione e l’automazione, guidata da Tullio Zanaboni. Negli anni ’80, poi, la Banca d’Italia e Tommaso Padoa-Schioppa mi chiamarono a sostituire alla Presidenza della SIA (Società Interbancaria per l’Automazione) Innocenzo Monti, ex Presidente della Comit. La SIA in quegli anni ebbe un notevole sviluppo e svolse un ruolo determinante, dal punto di vista tecnologico, nell’evoluzione dell’intero settore bancario e finanziario.

Fui nominato anche in due gruppi di lavoro, uno della Federazione Bancaria Europea e uno della Commissione UE, a Bruxelles, anche con gli auspici di Padoa- Schioppa e del Direttore Generale dell’ABI Gianani, per la stima che avevano in me: il PSSG (Payment System Steering Group) e il PSTDG (Payment System Technical Development Group). Ricordo una serie di interessantissimi e bravi partecipanti e interlocutori con cui scambiai idee, opinioni e conoscenza sul tema. Il PSTDG, infatti, riuniva alcuni partecipanti al PSSG in rappresentanza del settore bancario, i rappresentati dei circuiti inter- nazionali ed esperti della Commissione UE.

A questi incontri partecipò anche la futura premier britannica Theresa May, che all’epoca faceva parte del Payment Systems Committee della Federazione Bancaria Europea, in qualità di responsabile delle International Relations dell’Associazione Bancaria Inglese. Abbandonai la Presidenza della SIA nel 1998, quando fui eletto Presidente dell’ABI, carica che ho ricoperto per quattro mandati di due anni ciascuno, il massimo previsto dallo Statuto di allora. Nel frattempo fui eletto anche Presidente della Federazione Bancaria Europea, la federazione di tutte le associazioni bancarie d’Europa. La guidai per tre mandati fino al 2004. Poi mi sono occupato molto di quella che allora era la SEPA, l’area unica dei pagamenti in Europa. Dal 2014, inoltre, ricopro l’incarico di alternate del Presidente della FBE nell’Euro Retail Payments Board. Feci modificare lo Statuto, che non prevedeva limiti al rinnovo, tenuto conto del carico molto grande di lavoro che la carica comportava. Il mio primo incontro con l’ABI risaliva invece al 1974 quando, alla morte di mio padre, partecipai ad una riunione del Consiglio dell’Associazione, che non era stato più convocato da diverso tempo e le cui cariche non era- no state più rinnovate. Nel corso di quella riunione mi alzai per esprimere un intervento. Per me, ancora molto giovane, prendere la parola di fronte a una platea gremita di banchieri fu molto emozionante. Dietro di me sentii distintamente qualcuno dire, in dialetto piemontese, “ecco qui il Piemontese”, come presa in giro per il mio evidente accento piemontese. Ma quando finii di parlare, con mio grande stupore, ricevetti un inaspettato forte applauso, poiché avevo sottolineato l’esigenza che l’ABI operasse nella difesa e nell’interesse di tutte le banche, qualunque fosse la loro dimensione e categoria. Nel 1981 entrai in Comitato Esecutivo. Ecco come andarono le cose: eravamo nel pieno della crisi del Banco Ambrosiano e il professor Del Bo – Presidente di Assbank – mi pregò di raggiungerlo a Roma per ottenere il numero legale del Consiglio di Assbank, l’associazione delle banche private che oggi ha cambiato nome in Pri.Banks. A quell’epoca erano componenti del Comi- tato Esecutivo dell’ABI solo i rappresentanti delle grandi banche e i Presidenti delle associazioni di categoria. Nel corso di quella riunione il professor Del Bo annunciò di voler presentare le dimissioni dal Comitato Esecutivo dell’ABI e aggiunse che era sua volontà che lo sostituissi, proponendolo al Consiglio. Ne fui molto onorato e emozionato. Era luglio e avevo già organizzato le vacanze in campeggio in Grecia con la famiglia e per partecipare al mio primo Comitato Esecutivo dovetti lasciarli soli, in tenda, per due giorni. All’ABI devo anche l’incontro con uomini di valore ai quali sono profondamente legato, come i Direttori Generali Calabresi, Gianani e Zadra, nonché l’attuale Direttore Giovanni Sabatini. Faccio tutt’ora parte del Comitato Esecutivo dell’ABI e dal 2013 sono nel Comitato di Presidenza e presiedo il Comitato tecnico per le questioni europee. Ho avu- to anche l’onore e il privilegio di essere nominato – su “cooptazione” del Consiglio e indicazione di colleghi banchieri quali Federico Pepe e Carlo Salvatori, che ne era già stato Presidente – quale componente dell’Institut International d’Etudes Bancaires. Sempre dal 2013, fino al 2016, invece, ho dedicato grande impegno alla Presidenza di un’altra associazione, Assonime, l’associazione fra le Società Italiane per Azioni, alla quale aderiscono le più importanti aziende italia ne di diversi settori e opera per il miglioramento della legislazione industriale, commerciale, amministrativa e tributaria, lavorando duramente con la sua struttura per dare contributi alle istituzioni su tematiche d’interesse per le imprese e più in generale per lo sviluppo e il progresso dell’economia del Paese.

Torno indietro al 1978. All’epoca la Comunità Europea riunì a Bruxelles un certo numero di banche di medie e piccole dimensioni, come eravamo noi allora, per cercare di far sì che queste si riunissero. Appartenendo a paesi diversi non eravamo in concorrenza gli uni con gli altri e perciò ci si poteva scambiare informazioni e discutere della gestione in maniera ottimale. Nacque così il GEB, Groupement Européen de Banques, di cui sono stato Presidente due volte, così come in seguito lo è stato mio figlio Pietro. Ci sono altri due ambiti ai quali ho dedicato grande impegno, collegati tra loro: l’unità della famiglia e il funzionamento, lo studio, il miglioramento dei meccanismi che regolano la vita dell’impresa familiare in generale, non solo della nostra.

Provenendo da una banca privata di famiglia ed essendo la mia una famiglia molto unita e dalla lunga tradizione imprenditoriale, non potevo esimermi dall’impegnarmi anche in quelle istituzioni che portano avanti i valori delle aziende famigliari, che sia in Italia che a livello europeo rappresentano una componente molto importante dell’economia, non solo sotto il profilo dell’incidenza numerica, ma soprattutto per il loro contributo alla crescita del Prodotto Interno Lordo e all’occupazione. Nel 1992 venni nominato dai soci Presidente dell’APAF, l’Associazione per le Aziende di Famiglia, e rimasi in carica finché non fui nominato alla guida dell’ABI. Dopo l’ABI fui nominato Presidente dell’AIDAF, di cui ero stato propiziatore. Rimasi in carica dal 2007 al 2013. Su questi temi, peraltro, nel 1992 tenni una lezione all’Università Bocconi, che contribuì a far nascere anche il corso che attualmente si chiama di Strategia delle imprese famigliari. Il corso, anni dopo la sua nascita, è stato anche finanziato dall’AIDAF. Nel complesso delle mie attività la parte dedicata alla famiglia è stata molto importante, in linea con quanto fatto dai miei antenati, dedicandovi circa il 25% del mio tempo lavorativo totale. E i risultati sono arrivati: siamo riusciti a mantenere forte coesione, rimanere indipendenti, a non farci scalare, a dare soddisfazione agli Azionisti. Quanto agli Azionisti, la nostra famiglia ha avviato anche una lunga tradizione di avere come soci i dipendenti. La stessa Banca Sella, alla fondazione, ebbe come socio il Direttore amministrativo del Lanificio Maurizio Sella, il signor Monticelli.

Oggi Banca Sella Holding ha tra i propri soci circa 600 dipendenti del Gruppo. Ho iniziato questo breve racconto di me parlando di Storia e voglio concluderlo parlando della Storia che è ancora da scrivere. Quest’ultima evidentemente esula dai confini di un’autobiografia in senso stretto, ma quando si hanno alle spalle tredici o quattordici generazioni di imprenditori non si può non concludere con l’auspicio che questa Storia continui ancora a lungo, di generazione in generazione, affrontando da un lato le difficoltà, come è sempre stato, cogliendo da un altro le opportunità, come quelle di questo momento caratterizzato da cambiamenti e innovazioni. Ho trasformato nel motto “famiglia povera, impresa ricca” i comportamenti che la mia famiglia ha sempre tenuto. È un comportamento lungimirante, perché i momenti difficili vengono sempre e bisogna sempre essere pronti a sopportarli e affrontarli. Inoltre c’è un’espressione inglese che imparai proprio nelle riunioni di quel gruppo ristretto di aziende europee di famiglia di cui parlavo prima, che feci mia e che voglio ribadire qui: morality is longevity.