Mediterraneo e Libia, l’Italia nella gabbia di Erdogan

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Il trattato turco-libico sancisce l’irrilevanza del nostro paese a Tripoli. Il governo Conte risponde spedendo Di Maio a incontrare Serraj e inviando una fregata a difendere le prospezioni Eni di fronte a Cipro. Ma recuperare il terreno perduto è una missione quasi impossibile.

Prima abbiamo inviato una fregata a Cipro, ora spediamo a Tripoli il ministro degli Esteri Luigi di Maio nella speranza di rammendare la logora tela libica. Basterà? Pochi sono disposti a scommetterci. Le due mosse con cui l’Italia tenta disperatamente di recuperare terreno nel Mediterraneo e in Libia sono, in verità, un banale gioco di rimessa. Una risposta abbozzata in tutta fretta dopo gli arretramenti che stanno sancendo la nostra irrilevanza politico strategica in zone cruciali per l’ interesse nazionali.

Partiamo dal versante politico, ovvero dalla missione di Luigi Di Maio atteso a Tripoli, martedì 17 dicembre, per la prima visita nella nostra ex colonia dalla formazione del governo giallo rosso. Una visita rivolta a contenere l’aggressività di una Turchia che – approfittando della sempre più flebile azione politica esercitata dall’Italia – ci sta estromettendo da Tripoli imponendosi come principale referente politico del Governo di accordo nazionale (Gna) guidato dal premier Fayez Al Serraj. Uno smacco non da poco per un’Italia che nel 2016, in quanto potenza di riferimento per la Libia riconosciuta dalla comunità internazionale portò Serraj a Tripoli permettendone l’insediamento.Di Maio: “Sulla Libia la Ue rischia l’irrilevanza”
Oggi invece il Governo di accordo nazionale è sostanzialmente nelle mani della Turchia di Recep Tayyp Erdogan decisa, 110 anni dopo la guerra turco-italiana, a far risentire la propria influenza sugli antichi territori ottomani. La firma, il 27 novembre scorso, del trattato turco-libico sulle aree giurisdizionali del Mediterraneo di cui Serraj ha annunciato l’entrata in vigore l’8 dicembre ha reso drammaticamente evidente l’estromissione dell’Italia. Grazie a quell’intesa Turchia e Libia hanno trasformato i seicento e passa chilometri di Mediterraneo che separano la costa turca di Bodrum e Marmara da quella libica di Derna e Tobruk in una zona economica esclusiva ignorando la presenza di Creta e delle isole greche del Dodecanneso. Ma quel trattato, firmato alle nostre spalle, ha serie ripercussioni anche nel campo delle politiche energetiche dell’Italia. L’intesa riconosce alla Turchia diritti quasi esclusivi sulle prospezioni per la ricerca di gas e petrolio mettendo a serio rischio le concessioni off shore dell’Eni. E la minaccia non si ferma alla Libia. L’accordo mette indirettamente a rischio anche le prospezioni dell’Eni nelle acque di Cipro bloccando di fatto l’eventuale costruzione dei gasdotti indispensabili per portare in Europa il gas di nuovi giacimenti. Un affare non da poco. Oltre al gigantesco pozzo Zohr, scoperto dall’Eni di fronte all’Egitto, e all’Aphrodite, al Leviathan e al Tamar già attivi nelle acque di Cipro ed Israele quel tratto di Mediterraneo, nasconde secondo alcune stime, riserve di gas per oltre 3mila 500 miliardi di metri cubici. Ma per individuarle bisogna fare i conti con la Turchia impegnata da anni a contestare le zone economiche esclusive concordate da Cipro, Egitto ed Israele per spartirsi i diritti di ricerca. Diritti che Erdogan vorrebbe ripartiti con la Repubblica Settentrionale di Cipro, lo stato fittizio non riconosciuto dall’Onu, creato nei territori occupati militarmente da Ankara nel 1974.

Il Mar Mediterraneo, Cipro

Cipro, l’Italia manda una fregata nella acque di concessione Eni
L’Eni e l’Italia sono state fra le prime a far le spese di questa disputa geo politica. Nel febbraio 2018 Erdogan non esitò a dispiegare un’unità militare per bloccare la nave Saipem 12000 impegnata in ricerche nella Zona economica esclusiva (Zee) di Nicosia per conto dell’Eni. Proprio per questo il governo italiano, preso in contropiede dalla firma dell’accordo turco libico, ha mandato la fregata Federico Martinengo nelle acque di Cipro affidandole il compito di “svolgere – come spiegano i comunicati della Marina Militare – attività di presenza e sorveglianza degli spazi marittimi, in rispetto del diritto internazionale e a tutela degli interessi nazionali”. C’è da chiedersi però fino a che punto la Martinengo sarà autorizzata a difendere gli interessi nazionali. Un indietro tutta su ordine di un governo italiano preoccupato del rischio di uno scontro navale con Ankara eroderebbe ulteriormente la credibilità dell’Eni e dell’Italia. Prima ancora che nelle acque di Cipro il futuro degli interessi italiani si gioca però a Tripoli.

Ma lì gli spazi di manovra di Luigi di Maio, appaiono quanto mai ristretti. Da un punto vista meramente giuridico il nostro ministro degli esteri ha ragione nel definire illegale il trattato. E non solo perché in base agli accordi siglati con l’Onu il Governo di Accordo Nazionale non può ratificare intese senza il beneplacito del Parlamento di Tobruk (peraltro schierato con Haftar), ma anche perché le coste di Tobruk e Derna sono di fatto sotto il controllo dell’uomo forte della Cirenaica. La diplomazia in guerra però conta poco. Nella bilancia dei rapporti esteri il piatto della Turchia pieno di droni, mezzi blindati e missili a guida agli infrarossi forniti a Tripoli e indispensabili per fermare l’avanzata di Haftar risulta infinitamente più pesante di quello dell’alleato italiano. Un alleato che, oltre a non poter violare l’embargo sulle armi si è dimostrato da settembre ad oggi incapace di tessere un’azione politica internazionale capace di contenere l’avanzata di Haftar e garantire un negoziato politico in grado di fermare la guerra. Una latitanza politica confermata dalla decisione Onu di affidare alla Germania l’organizzazione della prossima conferenza sulla Libia e dal mancato invito del premier Giuseppe Conte ai colloqui sull’ex colonia intercorsi tra Francia, Inghilterra, Germania e Turchia durante il summit Nato di Londra ai primi di dicembre. In questa complessa e deteriorata situazione la missione di Di Maio a Tripoli rischia dunque di rivelarsi non solo tardiva, ma anche impossibile.