Metalmeccanici e contratti: il rilancio del sindacato

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sciopero

Giovedì 5 novembre i metalmeccanici sciopereranno contro il mancato accordo sul rinnovo contrattuale relativo al triennio 2020-2022. Fiom- Cgil, Uilm-Uil e Fim-Cisl propongono ai rappresentanti aziendali di Federmeccanica un punto di equilibrio basato sull’aumento dei salari dell’8%, all’incirca 144 euro lordi. La risposta da parte della Federazione Sindacale che fa capo a Confindustria è di accettare una possibile modifica dei contratti solo sulla base dell’andamento dell’inflazione. Più o meno significa aumentare soltanto il salario minimo del 2%, cioè mettere 40 euro lordi in più in busta paga. Le significative distanze tra le parti hanno creato una situazione di stallo. Per il momento le aziende hanno abbandonato il tavolo delle trattative e i lavoratori stanno rispondendo con la proclamazione di uno sciopero di sei ore, indetto per l’inizio del mese prossimo. Per le prime quattro ore non si andrà a lavorare mentre, per le restanti due, si terranno assemblee.

Le tre sigle alzano i toni dello scontro puntando il dito anche verso il governo. All’esecutivo, infatti, si chiede di sostenere l’aumento dei salari detassandolo, con lo scopo di dividere parte di quella ricchezza aziendale che, nel precedente contratto, non sembra aver riguardato la classe operaia.

In effetti il sindacato italiano è tornato ad avere un ruolo di grande importanza nella tutela dei diritti dei lavoratori. Nei duri mesi del lockdown, anche grazie a una generale idea di coesione sociale, il governo e le parti sociali hanno saputo lavorare insieme e ottenere importanti provvedimenti come i protocolli di sicurezza, il blocco dei licenziamenti e una serie di indennità per varie categorie di lavoratori. Il coinvolgimento delle associazioni sindacali nelle scelte strategiche del paese non soltanto non era affatto scontato, ma ha ridato vigore a un mondo che sembrava essersi affievolito. La politica della disintermediazione, alimentata anche dal centro-sinistra, ha colpito profondamente le principali piattaforme di lotta lavorativa in termini di incisività. Dalla forte politica di concertazione degli anni ’90 dove, davanti al crollo del sistema partitico, le tre sigle confederate sembravano essere il principale punto di riferimento della politica industriale italiana, siamo passati ai tempi più recenti, dove la voce del sindacato è apparsa spesso inascoltata. Anzi, alcuni risultati storici ottenuti dalla classe operaie, come l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sono stati soppressi nonostante le ripetute proteste. Segno che la forza contrattuale di CGIL, CISL e UIL aveva subito un drastico ridimensionamento.

Eppure il sindacato vive una forte contraddizione interna. Pur essendo stato vittima di campagne di accanimento, tra le quali spiccano le accuse di conservatorismo e di mancata comprensione dell’evoluzione del mercato del lavoro, risulta essere ancora un polo di attrazione per più di 12 milioni di iscritti, cifra che supera le adesioni ad analoghe piattaforme di altri paesi
europei.
Delegittimazione

Tutte le democrazie occidentali hanno subito un forte calo dei tesseramenti sindacali rispetto al secolo scorso. L’incertezza dovuta alle difficoltà della globalizzazione, gli ostacoli nell’interpretazione dei cambiamenti internazionali, il conseguente ritardo nelle lotte alla disuguaglianza e nella rappresentanza di nuove categorie di lavoro, hanno minato la credibilità della classe dirigente sindacale. Il problema della delegittimazione, però, all’estero è stato più raro. In altri paesi, infatti, il ruolo del sindacato come istituzione (in Germania vige il metodo della co-gestione industriale), come difensore di un welfare diffuso e oppositore della disoccupazione, non è stato messo in discussione. In Italia, al contrario, le strutture della rappresentanza collettiva sono state percepite come un ostacolo da saltare, preferendo un contatto diretto con le masse, che ha avuto l’effetto di aumentare la sostanziale precarietà del tessuto sociale.

Le recenti difficoltà, specie la crisi pandemica, sembrano aver dimostrato come il potere politico non possa non confrontarsi con gli obiettivi di trasformazione e protezione sociale del sindacato, con le prospettive culturali e di distribuzione della ricchezza che sono proprie della storia del movimento operaio. Una piattaforma che non solo è in grado di controbilanciare la spinta verso una società di mercato, ma che serve anche a incanalare un sentimento di ribellione, di protesta, dentro forme di confronto democratico e di contrapposizione contrattuale. Si tratta di un ruolo che, in parte, supplisce quello dei partiti, conferisce maggiore autonomia e abbandona l’etichetta di “cinghia di trasmissione”, espressione tipica della prima repubblica.

Naturalmente non sono mancati i limiti nelle azioni. Gran parte degli iscritti appartiene al settore dei pensionati, quindi si registra sempre una certa difficoltà nell’interagire col mondo dei più giovani, con quello delle partite Iva, con i disoccupati e con i lavori del nuovo millennio, frutto delle trasformazioni tecnologiche. Si registra, però, il tentativo di dare al paese nuove prospettive interessanti. Recentemente la CGIL ha pubblicato un fascicolo dal titolo “Dall’emergenza al nuovo modello di sviluppo”, dove affronta di petto i nodi del mercato del lavoro italiano. Si propongono tentativi di soluzione alla crisi come la creazione di una nuova “Agenzia per lo Sviluppo”, per coordinare le politiche di sviluppo industriale e le partecipate statali; si chiede il diritto alla disconnessione per lo smartworking; si punta l’obiettivo sul diritto alla formazione permanente e si sostiene la necessità di una nuova alfabetizzazione di massa, rafforzando le competenze dei lavoratori più fragili. Un documento che, nel quadro di unimportante impegno europeo, passa dallo Stato imprenditore alla conversione ecologica, dalla scuola (con obbligo di studio fino ai 18 anni) alla velocizzazione dei processi autorizzativi delle gare d’appalto. Insomma, sembra un vero e proprio programma di governo di un partito politico pronto a candidarsi alle elezioni nazionali!
Immaginando l’unità

Invece non è affatto così’. E’ la CGIL che prova a rimettere in moto i propri motori con un’analisi di prospettiva, scuotendo tutto il mondo della rappresentanza attraverso due proposte che guardano alle altre confederazioni: una legge sulla rappresentanza del sindacato e la possibilità di unirsi in un unico soggetto democratico. Per il segretario Landini, infatti, sembrano essere finiti i tempi delle divisioni politiche e ideologiche tra le tre sigle, immaginando una unità che rappresenterebbe una svolta nella storia dei movimenti sindacali e che potrebbe presto fronteggiare la controparte padronale su grandi temi di rilevanza generale, come il fisco e la contrattazione nazionale.

A prescindere dalla proposta di unione, di certo si sente il bisogno di alcune ricette importanti. Il Covid, per esempio, ha mostrato tutta una serie di lavori (spesso in nero) che non raggiungono la soglia della dignità, davanti ai quali non si può far finta di nulla. Occorre che i contratti firmati dalle principali associazioni di rappresentanza diventino applicabili erga omnes, senza possibilità di andare a ribasso. Ma non basta. Un pezzo della sinistra chiede ai sindacati di rinunciare alla lotta per il welfare aziendale, per concentrarsi principalmente sulla formazione continua come diritto soggettivo. Il principio che si vuole inseguire è quello della difesa di un welfare sanitario che sia universalistico, un diritto sostanziale di tutti, senza alcuna differenziazione su base contrattuale.Contemporaneamente, la formazione consente al lavoratore di essere sempre aggiornato davanti ai repentini cambiamenti del mercato. Principii sacrosanti che la politica deve rivendicare, collaborando sullo stesso terreno scivoloso del conflitto sociale, nel quale il sindacato si rivela sempre un alleato prezioso.                                                                                 Di Federico Micari