Morte cardiaca improvvisa: non tutto è scritto nel Dna

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Benedetta Motta studia i livelli di una proteina associata alla cardiomiopatia aritmogena per identificare i soggetti a rischio di sviluppare la malattia
Morte cardiaca improvvisa: non tutto è scritto nel Dna

Nota alle cronache per provocare la morte inaspettata di giovani atleti in apparenza sani, la cardiomiopatia aritmogena, meglio conosciuta come morte cardiaca improvvisa, è una malattia di origine genetica che colpisce ogni anno 1-5 persone su diecimila e provoca l’arresto cardiaco anche nei giovani sotto i 35 anni. Dal punto di vista anatomico, la malattia è caratterizzata dalla progressiva sostituzione del tessuto muscolare del cuore con tessuto adiposo e fibroso. Questo ispessimento del tessuto riduce la dimensione dei ventricoli e favorisce lo sviluppo di aritmie, che portano poi a scompenso e arresto cardiaco. La maggior parte dei pazienti non presenta nessun sintomo prima del decesso e pertanto l’identificazione delle persone a rischio è particolarmente importante per i soggetti a rischio. Gli studi condotti finora hanno dimostrato che la cardiomiopatia aritmogena è causata principalmente da mutazioni nei geni che codificano per le proteine di adesione tra le cellule del cuore. Tuttavia, non tutte le persone che presentano una mutazione in questi geni sviluppano la malattia. Benedetta Motta cercherà di fare luce sui meccanismi molecolari della cardiomiopatia aritmogena, con lo scopo di sviluppare un test non invasivo per identificare i portatori di mutazione effettivamente a rischio di sviluppare la malattia.

Benedetta, vuoi raccontarci su quali aspetti della malattia intendi focalizzare il tuo studio?

«La mia ricerca si focalizzerà sull’analisi dei livelli di produzione di PKP2, una proteina fondamentale per la normale adesione tra le cellule del cuore. I dati disponibili indicano che le mutazioni a carico del gene PKP2 sono tra le principali responsabili della cardiomiopatia aritmogena. Tuttavia, molti soggetti con PKP2 mutato non sviluppano la malattia. La mia ipotesi è che mutazioni diverse del gene PK2 determinino differenze nella quantità di proteina prodotta, che a sua volta influenzano lo sviluppo della malattia».

Ipotesi interessante: come pensi di analizzare i livelli di proteina nei singoli pazienti?

«Per valutare i livelli di proteina in persone con mutazioni diverse utilizzerò un modello in vitro costituito da cellule staminali pluripotenti indotte. In pratica, si prendono le cellule adulte e mature di un soggetto, come quelle della pelle, e le si fa regredire a uno stato non differenziato. Le cellule non differenziate possono poi essere trasformate in cellule cardiache che saranno quindi specifiche per ciascun paziente. A questo punto sarà possibile analizzare la produzione di PKP2 in portatori sani e in portatori malati».

Quali ricadute potrebbe avere la tua ricerca per la salute umana?

«La correlazione tra i livelli di proteina PKP2 e lo sviluppo della malattia consentirà di progettare un test non invasivo in grado di identificare i portatori di mutazioni a rischio di sviluppare una cardiomiopatia aritmogena. La disponibilità di un metodo di test facile e veloce agevolerà la diagnosi precoce e consentirà l’identificazione della malattia anche in soggetti asintomatici».

Benedetta, ricordi il momento in cui hai capito di voler fare la ricercatrice?

«In realtà non c’è stato un episodio in particolare, credo di aver sempre voluto fare la scienziata. Da bambina, infatti, sognavo di stare nel retro di una farmacia a mescolare tra loro erbe e sostanze diverse per creare nuovi prodotti. Ho scelto di fare ricerca perché per me è il lavoro più bello del mondo. Non credo esistano carriere più o meno facili, o remunerative, e ho lottato per fare quello che più mi piaceva».

E ora che hai realizzato il tuo sogno, cosa ti piace di più del tuo lavoro?

«L’emozione di non sapere mai fino in fondo dove i tuoi esperimenti ti porteranno, i piccoli e grandi misteri che ci sono dietro ogni singola osservazione».

E cos’è invece che ti motiva e dà senso alle tue giornate?

«La speranza di far luce su meccanismi biologici che ancora sfuggono alla nostra comprensione, così da poter un giorno capire dove e come agire».

Cosa ne pensi del rapporto tra comunità scientifica e società civile?

«Credo che oggi ci siamo molta, troppa distanza tra ricercatori e cittadini. La comunità scientifica dovrebbe cercare di far conoscere e capire a tutti l’importanza del lavoro svolto dei ricercatori. Un lavoro serio e difficile, spesso frustrante, e che procede a piccoli passi. Allo stesso tempo, anche istituzioni dovrebbero portare più rispetto verso l’attività di ricerca, sostenendola e non solo criticandola. Un paese ha bisogno che le università e gli enti di ricerca svolgano il loro lavoro con serenità per progredire e migliorare».

Ora raccontaci di te: prova a descriverti con tre pregi e tre difetti.

«Entusiasta, precisa e onesta. Purtroppo anche testarda, a volte troppo emotiva e molto esigente».

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita?

«Vedere Vinicunca, la montagna dai sette colori, in Perù. Un arcobaleno a oltre cinquemila metri di altezza».

Hai un fidanzato che vive negli Stati Uniti. Hai mai fatto qualche pazzia per lui?

«Si. Per riuscire a vederlo, ho fatto un weekend lungo a Miami partendo da Bolzano. Ventuno ore di volo per stare insieme due giorni».

C’è un qualcosa che porti sempre con te, nel tuo girovagare per il mondo?

«Un libro, “Ci sono bambini a zig-zag“, dello scrittore David Grossman. Parla del fascino della vita e del desiderio di non sprecarne neanche un istante».

Se potessi scegliere, quale personaggio famoso ti piacerebbe conoscere?

«Se fosse possibile viaggiare nel tempo, mi sarebbe piaciuto andare a cena con Marie Curie per chiederle cosa l’ha spinta a fare ricerca in una società che discriminava le donne, e per le quali era già un enorme successo poter studiare. Vorrei che mi raccontasse le sue emozioni e com’è riuscita a superare tutti gli ostacoli e le delusioni lungo il suo percorso».                                                                                             fonte https://www.fondazioneveronesi.it _