Non c’è nessuno, allora entrano da un finestrino

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tratto da “L’ultima fila in alto”

Enrico Bordiga, zio del ramo paterno di Gianluca che è l’autore de “L’ultima fila in alto”, raccontava tantissime volte quanto gli accadde durante la guerra, la seconda guerra mondiale. E raccontava che una mattina, dopo circa cento giorni di internamento a Mauthausen, deportato lì dopo un anno di campo di concentramento a Norimberga, appena svegliati si accorgono che sulle torrette di sorveglianza non ci sono le guardie; allora escono tutti dalle baracche e vedono che non c’è più nessuno. Si avvicinano alla cinta e buttano un pezzo di ferro sul reticolato, per capire se c’è dentro la corrente; le SS hanno abbandonato il campo ma non lo hanno lasciato aperto, e la cinta è rimasta elettrizzata. Gli internati decidono di dividersi in piccoli gruppi per riuscire a scappare; lui, Enrico, si mette insieme ad un gruppo di una quindicina di bergamaschi e bresciani, vanno dove la cinta ha un punto basso e riescono a scavalcare; sono disorientati, dopo un po’ trovano dei soldati americani e capiscono tutto, capiscono che la guerra è finita. Con vari modi e in tanti giorni riescono ad arrivare al confine del Tirolo. Camminando sui prati delle montagne tirolesi trovano una cascina, non si vede nessuno, guardano attorno, non c’è nessuno, allora entrano da un finestrino, vi trovano tante forme di formaggio; la fame sofferta è infinita, Enrico ha perso 40 chilogrammi; tanti del gruppo non mantengono la calma e mangiano quel formaggio esageratamente, cinque muoiono per indigestione. Il gruppetto si riposa, poi riprendono a camminare e arrivano in un centro dell’Alto Adige dove riescono a salire su un treno merci che li porta fino a Verona, da lì con un altro treno riescono ad arrivare a Brescia. A Brescia il gruppo si sparpaglia; Enrico trova diversi automezzi che lo lasciano salire e arriva a Ponte Caffaro; scende all’inizio del paese, per arrivare a casa deve fare quasi un chilometro. Prima d’essere internato nei campi di concentramento pesava circa ottanta chilogrammi, adesso è pelle ed ossa. Camminando, per la strada c’è chi lo guarda impressionato, sembra lui ma nessuno gli parla, in paese lo pensano morto, e lui questo non lo sa; arriva a casa e trova un’amara sorpresa, c’è suo fratello che gli spiega che dopo l’otto settembre del ’43 il Comando Militare aveva comunicato il ritrovamento della piastrina di soldato, di Enrico, e per questo lo hanno dato per morto. Enrico chiede dov’è il papà, suo fratello gli spiega che è a lavorare nei Campini. Il papà, Antonio, durante la guerra ha trovato da lavorare come fattore, in dialetto si dice “él Famèi”, presso una grande fattoria nella zona dei Campini, la campagna che costeggia il torrente Caffaro, a confine col Trentino, circa un chilometro fuori paese. Nel frattempo una persona del paese che lo ha visto arrivare e l’ha riconosciuto, conoscendo bene il papà è andato nei Campini ad avvisarlo; va giù di corsa e dice, in dialetto, al papà di Enrico, Antonio, “Tòne, l’é rià ‘l’tò fiól ‘nrico”, in italiano “Antonio è arrivato tuo figlio Enrico”. Ma il papà la prende molto male, pensa che quell’uomo stia facendo un brutto scherzo, e reagisce tirandogli addosso l’attrezzo da lavoro che aveva in mano, una forca per prendere il fieno; s’arrabbia forte, Antonio, e rincorre quell’uomo. Ma quell’uomo che ha visto Enrico però insiste a dirgli che è vivo, che non è uno scherzo. A quel punto il papà gli crede, torna a casa e ritrova suo figlio che pensavano morto. Questo libro scritto da Gianluca Bordiga, nipote di Enrico, in parte è una narrazione della storia drammatica della sua famiglia, dai primi anni del ‘900, e in parte è un’autobiografia con narrazione dell’impegno pubblico dell’autore stesso; la sua opera prima, che verrà presentata la prima volta a Venaria reale, Torino, ormai in primavera, cioè quando, e si confida proprio, l’emergenza Covid sarà sotto controllo e la gente potrà nuovamente presenziare a questo genere di eventi; potrà, cioè, avvicinarsi all’autore e chiederne una dedica. E l’opera di Gianluca lo merita, molto.

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