Non prendiamoci in giro: sono decenni che non si investe più sulla cultura

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E dopo aver festeggiato la Giornata mondiale del Teatro (maledettelegiornatemondialidiqualsiasicosa), con i teatri che ovviamente non hanno riaperto, è forse il caso di ricordare che questa pessima storia è iniziata ben prima della pandemia.
Che sulla cultura non ha investito più nessuno, al di là dell’oscena frase di Tremonti di qualche anno fa.
Che è stata paragonata al petrolio, perché le parole sono importanti, e considerata in modo esclusivamente strumentale all’aspetto commerciale.
Che si è fatto gran vanto di essere ignoranti, dal mitico Romolo e Remolo dell’allora Presidente del Consiglio – e editore tra i più grandi d’Europa! – al tunnel che univa il Gran Sasso al Cern di una ministra che è ancora in carica, fino alla sottosegretaria che non legge un libro da anni, e lo rivendica con orgoglio.
Ignoranza come manifesto politico, fastidio per i “professoroni”, disprezzo per le competenze. Metafore commerciali, false contrapposizioni tra cultura umanistica e scientifica (così da poter dimenticare entrambe), un’offerta televisiva in cui si è scesi diversi gradini della scala evolutiva, prediligendo il becero e il grottesco.
Tagli e risorse riservate a poche consorterie, agli amici degli amici degli amici (ad libitum), gruppuscoli sempre più elitari che si parlano tra loro, si commentano tra loro, si recensiscono tra loro, in una sorta di cretinismo della valle dell’Eden.
E poi conflitti di interessi dappertutto, proprio nel mondo (la cultura non è un settore!) che per sua natura dovrebbe essere aperto, creativo, libero e anche concorrenziale, nel senso di quella concorrenza leale che è sinonimo di uguaglianza, in una società di mercato come la nostra.
Progetti mastodontici che non vanno da nessuna parte, dai portali Welcome in Italy alla Netflix della Cultura.
Il Belpaese è diventato un paese ignorante e chiuso in se stesso, ben prima che arrivasse qualcuno a rispolverare il nazionalismo. E i due fenomeni ahinoi vanno letti senza soluzione di continuità.
Un vero peccato, ma non date la colpa al virus. In questo caso, la responsabilità è di gruppi dirigenti che con la cultura non hanno niente a che fare. Per ragioni strategiche e dichiarate.

Giuseppe Civati